Per approfondire proprio i temi legati ai benefici ambientali delle minime lavorazioni AgroNotizie ha intervistato Michele Pisante, professore ordinario di Agronomia e coltivazioni erbacee presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Teramo.
La meccanizzazione agricola, esplosa soprattutto nel secondo dopoguerra, si è basata a lungo su lavorazioni profonde del suolo. Oggi è invece vista come strumento idoneo ad alleggerire la pressione ambientale causata dall'agricoltura. Quali sono stati i cambi nei paradigmi tecnologici che fanno oggi guardare alle macchine come alle nostre prime alleate sul fronte del global warming?
"Da un lato le lavorazioni profonde del terreno venivano praticate per la necessità di migliorare la struttura del terreno, il controllo di malerbe e malattie fungine, ma furono soprattutto indispensabili per dissodare e mettere a coltura nuove superfici al fine di sostenere la domanda crescente di cibo.
I prati naturali si presentavano infatti inospitali per la semina e le arature profonde rendevano più agevoli le consequenziali pratiche agronomiche. Negli Usa, per esempio, le lavorazioni meccaniche permisero di ampliare le superfici coltivate a mais e patate, che richiedono terreni ben strutturati.
Nel tempo si sono poi realizzate macchine e attrezzature sempre più efficienti per effettuare le lavorazioni del terreno, grazie anche all'avvento dell'elettronica che ha progressivamente ridotto la componente meccanica con molteplici benefici sul fronte dei consumi e dell'impatto ambientale.
Questa evoluzione è stata resa ancor più veloce dalla crescita della forza motrice nelle aziende agricole, come pure dalle nuove strategie di automazione. Il tutto, sospinto anche dai cambiamenti climatici registrati negli ultimi decenni.
Per fronteggiare tali effetti sull’ambiente è divenuta perciò sempre più necessaria l'integrazione tecnologica delle diverse pratiche agricole, in modo da affrontare con successo le molteplici sfide che ci aspettano nei prossimi decenni. Da un lato vi è infatti la necessità di rendere l'agricoltura sempre più produttiva, e vi sono le potenzialità per farlo, e dall’altro di renderla al contempo sostenibile”.
Dieci milioni di ettari coltivati in più nel 2015 a livello globale con tecniche conservative sono quasi pari alla Sau italiana. Una conferma di un trend che appare inarrestabile. Esiste al momento una stima delle superfici massime convertibili a tali tecniche a livello globale? O detta in altri termini, quali sono, sempre che vi siano, i limiti oggettivi di tali pratiche?
“In teoria, i limiti alla loro espansione globale sono davvero pochi. Ampie sono infatti le superfici agricole attualmente coltivate secondo approcci convenzionali che potrebbero essere convertite a minima e non lavorazione. Ovviamente, l'incremento maggiore delle aree coltivate tramite questi sistemi è atteso soprattutto nei Paesi dove già da tempo esse sono divenute pratica comune. Per esempio, in Argentina passare dagli attuali 28 milioni di ettari a 30 appare fattibile con una certa facilità. Stessa cosa per Brasile, Usa, Canada. Meno, dove tali pratiche sono ancora poco diffuse, soprattutto per motivi di tipo culturale.
L'agricoltura conservativa è infatti un sistema di gestione delle produzioni che è cresciuto nel tempo e potrà affinarsi e declinarsi nelle varie agricolture mondiali, inclusa quella italiana, sempre che si riesca ad accompagnare gli operatori in una trasformazione dei modelli produttivi verso modelli nuovi che devono però essere riconoscibili anche dal punto di vista commerciale. Un esempio in tal senso è il biologico, il quale è riuscito a ben caratterizzarsi sui mercati. L'agricoltura conservativa, se ben comunicata e diffusa, potrebbe raggiungere un'estensione anche maggiore”.
A proposito di motivi di tipo culturale: in Italia si parla da anni di agricoltura conservativa e sono stati anche predisposti alcuni specifici contributi nei Piani di sviluppo rurale. La nostra conformazione territoriale, peraltro, ne suggerirebbe la diffusione soprattutto nelle aree collinari come mezzo anti-erosione, oltre che per aspetti legati alle emissioni. Eppure queste tecniche stentano a decollare per come meriterebbero. Quali sono i limiti italiani: tecnici, culturali, territoriali, commerciali, oppure politici?
"Le barriere nel Belpaese sono prevalentemente di carattere tecnico-culturale, ma patiscono purtroppo anche di una scarsa attenzione da parte dell’indirizzo politico in senso lato e dei gestori del territorio in particolare. Basti pensare ai recenti danni idrogeologici: una migliore gestione del territorio mitigherebbe tali eventi e l'agricoltura conservativa può certamente contribuire in modo sostanziale a tali benefici.
Al momento non esistono infatti limiti oggettivi o agronomici alla sua espansione, fatta eccezione per i pregiudizi e per la scarsa esperienza di molti operatori professionali. Ciò grava non solo sugli agricoltori, bensì perfino sui contoterzisti.
La barriera culturale viene peraltro trasmessa di padre in figlio: alla prima difficoltà tendono a mollare e a tornare alle pratiche precedenti. Soprattutto il contoterzismo andrebbe valorizzato maggiormente. Al momento, per esempio, chi è contoterzista non può beneficiare dei Psr o di altre misure concesse agli agricoltori. Un’eventualità, quella di estendere i contributi ai terzisti, che ovviamente non incontra il favore delle associazioni di categoria agricole.
Peraltro, non aiuta nemmeno il fatto che i Psr siano strutturati su scala regionale: per tale motivo capita a volte che regioni contigue mostrino fra loro differenze di approccio, metodo e risultati attesi. Per i terzisti diviene un problema, visto che spesso operano a cavallo di regioni differenti. Forse risulterebbero utili apposite deroghe atte ad agevolare il lavoro inter-regionale.
A mio parere, però, più che la concessione ai terzisti dei contributi regionali, potrebbe avere una maggiore ricaduta allocare su di loro alcune attività di pertinenza agricola. I terzisti potrebbero cioè svolgere una serie di servizi certificati, opportunamente retribuiti dai beneficiari dei contributi specifici dei programmi di sviluppo rurale”.
L’Italia è un Paese dalle mille sfaccettature e dalle mille tradizioni locali, anche in campo agricolo. Forse nemmeno questo aiuta il minimum tillage. Come pure non pare sia opportunamente percepito il suo valore in termini ambientali…
“In Italia le tecniche di minimum tillage stentano infatti a crescere anche per la coesistenza con diverse pratiche convenzionali di lavorazione del suolo. Vi è quasi una certa timidezza nel sostenere le nuove tecniche, anche perché implicano l’acquisizione di competenze e attrezzature diverse.
Di sicuro, il mancato riconoscimento dei benefici ambientali di tali tecniche grava non poco sulla loro espansione. Utile e auspicabile sarebbe quindi una concreta quantificazione economica dei benefici ecosistemici che esse apportano.
Basti pensare al greening, sul quale vi sono crescenti interrogativi sui differenti criteri di valutazione dei suoi benefici reali. Forse bisognerebbe rinunciare a parte della precisione dei singoli dati a vantaggio di un monitoraggio più ampio e inclusivo. Per esempio, attraverso le tecnologie di remote sensing si possono effettuare analisi a distanza atte a quantificare i trend evolutivi di indicatori ambientali legati ai nuovi sistemi di gestione. Ora, oltre ai droni, vi sarà anche Sentinel 2, un satellite che offre l'accuratezza di un drone ma permette di gestire dati su vaste superfici per l'intero territorio nazionale, come pure di avere mappature specifiche per ogni coltura”.
Vi sono studi che indicherebbero un rovescio della medaglia delle pratiche di semina su sodo e di minima lavorazione, ovvero la crescita delle infestazioni di malerbe e di spore fungine a causa della loro permanenza in superficie. L'uso di agrofarmaci è però soggetto a crescenti limitazioni. Quali strumenti chimici sono a Suo avviso inevitabili, volendo ovviamente mantenere costanti le rese attuali per ettaro?
“La riduzione dell'utilizzo di agrofarmaci nei sistemi conservativi è un processo graduale che si è raggiunto negli areali più consolidati cercando di alternare sistemi colturali e pratiche razionali di gestione della flora infestante e avversità di diversa natura. La crescita di infestazioni si è peraltro registrata anche in aree coltivate con tecniche convenzionali. Tali problematiche sono per fortuna ben controllate dagli attuali mezzi di difesa. Peraltro, sono in sviluppo adiuvanti organici che possono consentire di ridurre le dosi per ettaro senza compromettere l’efficacia dei trattamenti.
Abbiamo infatti un obiettivo irrinunciabile, ovvero aumentare le rese unitarie. Quindi dobbiamo usare tutti i mezzi a nostra disposizione. Per fare un esempio in campo zootecnico: se volessimo ridurre le emissioni atmosferiche di ammoniaca, cosa facciamo? Eliminiamo la zootecnia italiana, oppure cerchiamo tecniche e tecnologie atte a diminuirle senza impattare la produttività? Dobbiamo essere consapevoli che raggiungere gli obiettivi ambientali prefissati richiede anche tempo. Ci vuole cioè una programmazione accurata. Per fare ciò vi sarebbe già oggi una solida base di informazioni, le quali purtroppo non vengono talvolta condivise adeguatamente rendendo meno efficace il processo decisionale”.
Il comparto agromeccanico è in costante evoluzione, a dispetto della crisi che perdura da quasi dieci anni. A suo avviso, quali dovrebbero essere i filoni di ricerca e sviluppo su cui i grandi gruppi industriali della meccanizzazione agraria dovrebbero indirizzare le proprie attenzioni e i propri investimenti?
“Innanzitutto, in questo periodo di crisi economico-finanziaria le attività del comparto meccanizzazione dovrebbero essere più di sistema. Specialmente sui temi ad obiettivo ambientale. Abbiamo invece visto che ciascuna azienda ha cercato soluzioni su propria misura, spesso prive di una visione d’insieme. L'industria è sì per alcuni aspetti molto avanzata, ma anche divisa e dispersiva negli impegni. Servirebbe forse un maggior coordinamento tecnico e politico, nazionale e internazionale, atto a meglio indirizzare i processi di sviluppo tecnologico delle singole industrie. La globalizzazione sta infatti costando molto in termini ambientali anche perché sono spesso i meri aspetti finanziari a pesare sui processi decisionali di management e governance”.
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Fonte: Agronotizie