C'è qualche cosa di nuovo in agricoltura. Si chiama agricoltura rigenerativa.
Non pensino male gli scettici: non è roba da fricchettoni, rasta, esoteristi, radical-chic, gauche caviar….
Nelle scorse settimane mi ha molto meravigliato un comunicato stampa della Rockfeller Foundation (ci troviamo quindi nell'Olimpo del capitalismo mondiale) che annunciava che il Fondo Trailhead Capital avrebbe investito 50 milioni di dollari in operazioni di agricoltura rigenerativa.
La meraviglia nasce da una memoria storica: la Rockfeller Foundation, probabilmente il più grande e antico ente filantropico del mondo, è la stessa che alla fine degli anni '40 dello scorso secolo, assieme al poi premio Nobel Norman Borlaugh, diede il via alla così detta "rivoluzione verde": il processo globale di industrializzazione dell'agricoltura con forte uso di fertilizzanti, agrochimici, sementi selezionate e meccanizzazione.
La Fondazione Rockfeller non è da sola: un paio di settimane fa la Sai, associazione che raggruppa i 170 maggiori gruppi mondiali dell'agroalimentare (da Nestlé a Danone, Unilever… parliamo della così detta Big Food) si è allineata su di un'unica definizione di agricoltura rigenerativa lanciando la piattaforma Regenerating Together, che nelle intenzioni dovrà guidare i futuri rapporti fra industria e agricoltura.
Sempre negli scorsi giorni la multinazionale PepsiCo ha voluto esprimere pubblicamente il proprio supporto alla strategia comunitaria del Green Deal, presentando un progetto molto ambizioso dal punto di vista dell'impatto ambientale e dichiarando un impegno verso le pratiche rigenerative negli 800mila ettari impiegati per le proprie produzioni in Europa.
Sarà tutto green washing, una strategia di comunicazione solo di facciata? È, come si dice nelle mie campagne, la m.… che si rivolta al badile? Per ora non lo sappiamo, ma dobbiamo cominciare a studiare.