Così pensa Alan Matthews, professore emerito di Politica agricola europea al Trinity College di Dublino ed ex presidente dell’Associazione europea degli economisti agricoli. La sua posizione è immediata, nel giorno della doccia gelata del post-referendum, con la vittoria – seppure non così netta – del Brexit.
“È spesso sembrato che l’Unione europea si rivelasse un comodo capro espiatorio – scrive Matthews - quando in realtà i problemi sono il risultato di decisioni e problemi nazionali. L’Agenzia britannica per le erogazioni dei pagamenti rurali è stata notoriamente parca nell’assegnazione delle risorse e l’anno scorso ha dovuto ritornare alle procedure cartacee, dopo che i suoi sistemi di Information Technology non si sono rivelati all’altezza del compito di gestire la transizione verso la nuova Pac”.
L’economista irlandese, uno tra i più famosi a livello europeo, condivide “l’insofferenza degli agricoltori britannici a quello che riconoscono come il carattere eccessivamente politicizzato del processo decisionale dell’Ue in tutta una serie di questioni come le approvazioni degli organismi geneticamente modificati, dei neonicotinoidi e del glifosato. Tuttavia, il problema qui sta nel comunicare meglio a coloro che dovranno prendere più ampiamente una decisione pubblica e politica la natura del rischio: non è un compito facile, data la natura dei social media e delle chat su Internet, che amplificano le notizie”.
La Pac avrà un ruolo fondamentale ancora, ma quanto è stato fatto si è ritorto contro gli imprenditori stessi. “La questione – decreta Matthews – non può ridursi semplicisticamente rimuovendo le normative e lasciando che gli agricoltori facciano quello che vogliono, ma piuttosto agendo in modo che i regolamenti siano ragionevoli, efficaci e comprensibili. L’ultima riforma della Pac ha riconosciuto il valore della flessibilità di attuazione, per tener conto della diversità dei sistemi di produzione agricola nell’Ue. Ma l’aver riconosciuto tale necessità di flessibilità è stato ripagato con una dettagliata gestione di piccole questioni, senza tenere minimamente conto della natura dei luoghi e della specificità dei territori, con riferimento a molti problemi ambientali, legati all’agricoltura”.
Aspetti dei quali, secondo l’economista irlandese, “i Paesi europei dovranno farsi carico nelle discussioni sul futuro della Pac dopo il 2020, ora senza il Regno Unito. Semplicemente, non si dovrebbe più insistere allo stesso modo”.
L’obiettivo – con l’uscita della Gran Bretagna – è “lavorare per fare dell’Unione un successo e un modello sufficientemente attraente, che in un’altra generazione possa diventare l’obiettivo di un nuovo gruppo di leader britannici che cerchino di essere riammessi”.
D’altronde, secondo Matthews, la Brexit “avrà conseguenze negative per il Regno Unito in termini di crescita economica e di stabilità, forse anche costituzionale. Per l’Ue, non è possibile ora prevedere le conseguenze a lungo termine”.
Indubbiamente “l’ideale di cooperazione europea basata su valori condivisi e regole vincolanti ha subito una battuta d’arresto. D’altra parte, a differenza di precedenti tentativi di unificazione del continente, questo si è sempre basato sulla scelta volontaria. Per quelli che credono nei meriti del progetto europeo non solo per motivi ideali, ma anche per i benefici tangibili che può portare, è soprattutto una questione di attesa”.
Fra le conseguenze della Brexit, cita il professore emerito del Trinity College, “il ritiro del Regno Unito dal mercato unico significa inevitabilmente che i costi commerciali aumenteranno, perché le esportazioni britanniche di beni e servizi verso l’Ue non saranno più considerate commercio interno”.
Al di fuori del mercato unico, il Regno Unito fisserà le proprie regole e i regolamenti, diversi dall’Unione europea. “Supponiamo, per fare un esempio, che decida di autorizzare la coltivazione di colture di grano geneticamente modificate – scrive Matthews -. Semplicemente non è concepibile che il Regno Unito possa continuare a esportare cereali nell’Ue senza ispezioni e documenti aggiuntivi”.
Comunque sia, l’Unione europea dovrà compiere un esame di coscienza ed “esaminare i motivi dei propri fallimenti degli ultimi anni. La zona euro non è riuscita a stimolare la domanda e la sua tendenza deflazionistica ha fatto sì che la crisi nelle economie periferiche sia stata più profonda e con una durata superiore al necessario”.