Il workshop recentemente organizzato a Roma da Cnr e Alsia Regione Basilicata dal titolo "Italian plant phenotyping initiative" è stato, per AgroNotizie, l’occasione di incontrare il direttore del Dipartimento di scienze bio-agroalimentari del Consiglio nazionale della ricerca, Francesco Loreto, e di rivolgergli qualche domanda per andare alla scoperta del plant phenotyping, traducibile in italiano con l’impronunciabile fitofenotipizzazione; una disciplina ignota ai più, ma che può rivelarsi fondamentale per il futuro dell’agroalimentare dal laboratorio di ricerca al campo e al piatto.
 
Buongiorno direttore, il plant phenotyping è un ambito di studio comparso di recente nel mondo dell’agroalimentare e ancora ignoto oltre i confini accademici. Può spiegarci di cosa si tratta?
"Tutti gli organismi - tra cui le piante, nostro oggetto di studio – sono costituiti da una base genetica (genoma o genotipo) e da una seconda base costituita dalla sua interazione con l’ambiente e dalle manipolazioni. Il fatto stesso che l’uomo coltivi le piante costituisce un insieme di questi tre elementi; insieme che chiamiamo fenotipo. Ogni fenotipo, quindi, è il risultato dell’interazione tra base genetica e ambientale. Lo studio del fenotipo delle piante è l’oggetto del phenotyping.
Trattandosi di un’attività relativamente giovane, si è trovata e si trova di fronte a diversi problemi, tra i quali – tra gli argomenti dell’incontro odierno – quello dell’high-throughput. In breve: mentre nella genomica la tecnologia consente il sequenziamento dei genomi in pochi giorni, con la conseguente massa di dati e informazioni rese disponibili per l’elaborazione, nel caso del phenotyping sinora si è dovuto procedere manualmente, con metodi diretti che consentivano un numero estremamente limitato di campioni osservati quotidianamente.
Solo oggi, grazie alle nuove macchine che lavorano con sistemi ottici e biochimici, come ad esempio le tecnologie laser o a risonanza magnetica, si riescono a esplorare in pochi attimi le caratteristiche delle piante non solo legate alla parte aerea, ma anche all’apparato radicale, raggiungendo livelli di high-throughput per il fenotipo comparabili a quelli per il genotipo. Questo ovviamente consente una migliore integrazione dei dati, dando agli stessi genetisti la possibilità di verificare in tempi ragionevoli la validità della loro ricerca e del genotipo che questa ha prodotto".

 
La fenotipizzazione è dunque una disciplina di studio e riscontro per la genomica?
"In realtà è molto più di questo. Tra il pubblico di oggi erano presenti molti genetisti, per cui il mio esempio è andato in questa direzione, ma il phenotyping può indirizzarsi verso lo studio di specie già esistenti. Sotto la pressione del climate change ci si può indirizzare verso il recupero di varietà di grano dimenticate, ma che dimostrano di saper resistere naturalmente ai nuovi regimi climatici. Lo stesso avviene con nuove specie o varietà, come ad esempio la quinoa, coltivata in Italia e in Europa per la sua caratteristica di avere pochissimo glutine: con questa pianta siamo ancora all’anno zero, sia dal punto di vista della genomica che da quello del phenotyping.
Uno studio di fenotipizzazione su questa pianta potrebbe dare risposte molto importanti, così come può darle in merito alla resistenza di alcune piante a parassiti o invasioni biologiche. Prenda l’esempio della Xylella: se noi riuscissimo a fare un phenotyping veloce dell’attacco, delle piante attaccate e della loro capacità di resistenza, i risultati potrebbero essere di enorme aiuto. Non a caso oggi erano presenti anche diversi patologi vegetali. Come vede, quindi, il phenotyping non può essere considerato esclusivamente come disciplina complementare alla genetica".

 
È forse più corretto intenderlo come il trait d’union tra il laboratorio e il campo?
"Decisamente sì. Anche tra le ricerche presentate oggi ne abbiamo viste molte di laboratorio, ma molte di più di campo. Il phenotyping diverrà certamente un disciplina, ma è qualcosa che nasce dalle ceneri della fisiologia vegetale, della biochimica, dell’ecologia intesa come ecofisiologia, di quello studio cioè dei caratteri delle piante in vivo, ossia senza toccarle o distruggerle, e con una efficienza da high-throughput".



Il momento finale del workshop sul phenotyping

(Fonte foto: © Francesco Loreto - Cnr)

In Italia chi si occupa di questa ricerca?
"La ricerca la fanno in tanti. Il Cnr sicuramente ha lanciato il sasso nello stagno. Noi abbiamo sempre creduto in questa tecnologia, al punto che abbiamo avviato una nostra sezione presso Agrobios, una struttura in parte privata e in parte pubblica (Regione Basilicata) che è l’unica in Italia ad avere una grossa infrastruttura di phenotyping.
Il Cnr ha mostrato da tempo il suo interesse, ma siamo consapevoli che in Italia di phenotyping si occupa – o si vorrebbe occupare – molta più gente, e questo è il primo motivo dell’incontro di oggi. Un altro motivo per la riunione è la necessità di creare in Italia un consorzio fatto bene e che ci permetta di partecipare alle iniziative internazionali di cui ci ha parlato oggi il professor Schurr. Si tratta di tre organizzazioni principali: lo European plant phenotyping network, lo International plant phenotyping network e soprattutto Emphasis, che è un progetto che si propone di strutturare le cosiddette infrastrutture di ricerca che si occupano della materia.
Uno dei problemi che abbiamo è quello di definire i confini del phenotyping che, da una parte, tende a misure distruttive quali la proteomica, dall’altra tende all’agricoltura conservativa e di precisione. Il phenotyping sta nel mezzo e copre un’area, quella del fenoma, finora ignorata".

 
Come si finanzia la ricerca?
"A livello europeo ci sono grosse multinazionali che hanno compreso l’importanza del phenotyping per una potenziale riduzione dei costi dei loro prodotti o per immettere sul mercato nuovi prodotti in tempi più brevi.
In Italia, invece, le cose stanno in maniera molto diversa. Da noi la ricerca è ancora allo stadio iniziale. A parte le nostre ricerche con Agrobios, finanziate per il 99% attraverso progetti strategici del Cnr, c’è ben poco. Anche i relatori di oggi non hanno mai parlato di fondi da privati o cose del genere, per cui posso sostenere con ragionevole certezza che l’interesse dei privati sia per il momento minimo o assente.
Qualora tutto il sistema italiano di ricerca sul phenotyping riuscisse a decollare come ci auguriamo, organizzeremo un bel convegno a cui inviteremo i privati potenzialmente interessati a investire. Va detto che il problema dei mancati investimenti privati non riguarda solo il nostro settore. Da noi il privato vuole essere assistito dal pubblico, ma non è pronto ad affrontare il percorso inverso. Il problema si presenta in particolare con le aziende piccole e medie, ossia con la maggioranza delle imprese italiane. Con le più grandi abbiamo già in corso delle collaborazioni per l’agricoltura di precisione e contiamo di portarle anche sul phenotyping".

 
In Italia la coltivazione di Ogm è vietata. La cosa vi comporta dei problemi?
"Ovviamente si. Ci impedisce di fare una sperimentazione seria sugli organismi geneticamente modificati. Ora si parla molto del nuovo Genome editing, ossia di organismi che sono modificati ma non sempre sono transgenici, ossia che non hanno un foreign gene, il gene estraneo che viene inserito nel genoma originale. Di fronte a queste possibilità parlare di Ogm o transgenico comincia a divenire complicato. Abbiamo recentemente partecipato a un’audizione al Senato su questi argomenti e speriamo di aver spiegato in maniera esaustiva quali sono i limiti dei diversi approcci e perché l’attuale caccia alle streghe non sia quasi mai giustificata.
Come già accennato, il phenotyping va oltre la genetica. La genetica ci può dare il materiale che vuole sia sottoposto a osservazione, ma non siamo noi a decidere quale materiale osservare. In un processo di laboratorio potremmo trovarci a studiare un materiale transgenico perché sappiamo che ha mutato un processo che stiamo investigando. In questo caso il fenotipista può lavorare su transgenici particolari perché vuole osservare le conseguenze di questa trasformazione. A ben vedere, il fenotipista va a ricoprire proprio quel ruolo tanto invocato dagli oppositori degli Ogm che denunciano la mancata conoscenza degli effetti della modifica del genoma originario".

 
Quali sono i risvolti pratici del phenotyping?
"Innanzitutto è possibile fare uno screening più rapido ed efficace dei prodotti proposti all’agricoltore. Invece di fornirgli mille semi da provare sul campo per selezionare quello con la resa maggiore a determinate condizioni, gli si possono fornire direttamente i dieci semi più adatti, con un notevole ritorno economico. L’esperto di phenotyping è in grado di andare dall’agricoltore che voglia produrre grano con piante di una certa altezza, con determinate rese medie, resistenti a certi patogeni o ad altri e, magari, con poco glutine e consigliargli la pianta che fa al caso suo.
In un’ottica Horizon 2020, l’altro grosso vantaggio del phenotyping è che si può arrivare ad una sensibile riduzione nell’uso delle risorse naturali. Gli obiettivi del phenotyping, per come la vediamo al Cnr sono due: consentire uno sviluppo sostenibile dell’agricoltura aumentando le rese e, quindi, i redditi".

 
Le nuove frontiere della disciplina?
"Difficile a dirsi. Ce ne sono moltissime. Personalmente sono rimasto molto colpito dal phenotyping degli apparati radicali, spesso dimenticati perché invisibili. La parte aerea della pianta è quella che manifesta i sintomi, ma quando parliamo di stress idrico, di salinità e di nematodi, l’epicentro del problema è proprio nelle radici.
Altra frontiera è quello delle immagini Nmr (Risonanza magnetica nucleare), già usate in medicina e che ci possono dare informazioni importantissime, tipo il modo di muoversi dell’acqua nella pianta, che avrebbe lo stesso valore che in medicina ha la conoscenza del flusso sanguigno.
Una terza frontiera, molto affascinante e di cui oggi non si è parlato, è quella dello studio del volatoma, ossia di quelle sostanze immesse in atmosfera dalle piante per comunicare con altre piante o con animali. È un argomento di cui si sa pochissimo, ma esistono ormai strumenti che consentono misurazioni non distruttive e high-throughput di questo fenomeno. Questo ramo della ricerca potrebbe rivelarci cose interessantissime, ad esempio sui metodi di comunicazione tra pianta e insetto impollinatore da attirare o insetto dannoso da repellere, oppure su comunicazione tra pianta e pianta in caso di infestazione". 

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