Morsicata, come quella voluta da Steve Jobs per la sua Apple, bacata come quella dipinta – sarà la prima volta che appare il frutto corrotto - dal Caravaggio. La mela va oltre l’agricoltura.
Chi vede nella mela soltanto un frutto ha una visione limitata, per quanto corretta. Alzi la mano chi al nome di Isaac Newton non collega immediatamente la legge di gravità e la sua origine ad una mela, appunto, caduta in testa al fisico inglese.
La mela è arte, religione, tentazione, persino salute. Andando più in là rispetto all’adagio popolare “una mela al giorno leva il medico di torno”, è la stessa etimologia di pomata a rimandarci al frutto.
E la mela è talvolta arte e scienza, se riportiamo alla mente le stampe, le gouache e i disegni dei trattati di botanica molto popolari in Olanda, dove il rigore dell’immagine ha una finalità di fatto didattica.
Nel raccontare l’avventura della mela dall’agricoltura all’arte utilizzeremo un percorso volutamente tutto curve, un tondo o una sfera quasi perfetta come appunto il frutto protagonista di questo primo appuntamento.
Simbolo di vita e fertilità, così come la ritraggono i maestri delle icone russe nel tardo Settecento e in misura maggiore nell’Ottocento, pur rimanendo un esempio piuttosto infrequente e derivato dal contatto con la tradizione occidentale, la mela evoca senza dubbio – almeno nella tradizione cattolica – il peccato originale.
Con l’eccezione della sua presenza nelle rappresentazioni di Madonne col Bambino. In questo caso, infatti, assume una valenza salvifica, di redenzione. Come hanno ben presente i Della Robbia, i più abili maestri nell’uso della terracotta, invetriata e sovente policroma.
Il simbolismo religioso è fortissimo nelle immagini legate alla cacciata dal paradiso terrestre. La storia dell’arte è ricca di esempi. Tutti accomunati dall’elemento della bellezza. Il frutto proibito non può, d’altronde, non essere invitante.
Donatello o Luca della Robbia, "Madonna della Mela"
È su questo perno che si snoda il racconto. La mela (o le mele), affascinante emblema del peccato, fa(nno) da punto fermo ad elementi che variano, pur nella fissità dell’evento.
La tentazione umana, così come ce lo racconta il Libro della Genesi, è un tema caro a molti. Ricordiamo, nel periodo rinascimentale, Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553). Abilissimo pittore fra gli interpreti della Scuola danubiana, aderì alle tesi di Martin Lutero (che ritrasse diverse volte) e divenne uno dei pittori più influenti della Riforma protestante.
Lucas Cranach il Vecchio, "Adamo ed Eva"
Cranach ritrasse più volte anche Adamo ed Eva. Anche ricorrendo all’espediente del doppio quadro, come quello realizzato nel 1528 e che si trova oggi agli Uffizi di Firenze.
Tiene il centro del quadro la mela nel dipinto del dadaista Francis Picabia (1879-1953), ma qui la scena è catturata da Eva, che abbraccia il proprio uomo in un’atmosfera resa quasi in un altrove dai colori acidi della tela.
Il Palazzo Ducale di Venezia ospita il Paradiso terrestre di quell’eccellente visionario che fu Hieronymus Bosch. Fiammingo attivo a cavallo fra il Quattro e Cinquecento, in quest’opera rimane piuttosto entro i ranghi e non azzarda quelle strabilianti invenzioni che fanno pensare a lui come a un cultore dell’Inferno di Dante Alighieri e di tutta la letteratura medievale sul tema fantastico dei mostri e del peccato.
Le metamorfosi e le bizzarrie dell’olandese Bosch (1450 circa-1516) portano a pensare alla mela cubista di Fernand Lèger (1881-1955) – suggeriamo di visitare il museo a Biot, nel sud della Francia - che in una rincorsa all’azzardo spinge il pittore francese a ritrarre Adamo con una canottiera da marinaio ed Eva con i tratti grossolani di una donna vocata a dare il benvenuto nei bordelli del porto.
Vicino ed eppure appena sfiorato dai grandi movimenti artistici e culturali come cubismo, futurismo ed espressionismo, l’artista di origini russe Marc Chagall (1887-1985) si lancia in una rappresentazione onirica della mela e soprattutto di Adamo ed Eva. La tela è del 1905 e qui la prima coppia appare come un ermafrodito a due teste, in un vortice dove gli animali fantastici costituiscono una dimensione non del tutto irrilevante nel complesso messaggio chagalliano.
Marc Chagall, "Adam and Eve"
Certo la condizione tendenzialmente negativa della mela come peccato originale, tentazione e dannazione non si trova, per ovvi motivi, nell’antichità. Nella mitologia greca la mela è uno dei simboli di Venere e un attributo delle Grazie.
Galeotte furono le mele d’oro del Giardino delle Esperidi, lasciate cadere da Ippomene durante la gara contro la donna più veloce del mondo, Atalanta. La dea si fermò a raccoglierle, perdendo il confronto e dovendo acconsentire a sposarsi con colui che l’aveva battuta. Una storia raccontata da uno dei più grandi maestri del Barocco italiano, il bolognese Guido Reni (1575-1642). La tela è conservata al museo di Capodimonte a Napoli.
Un passo indietro, a livello cronologico. Perché non possono passare inosservate le visioni del milanese Giuseppe Arcimboldo (1526-1593), il cui nome è legato a doppio filo alle stagioni, in cui figure antropomorfe erano piuttosto il risultato di audaci e geniali accostamenti di frutti e ortaggi. Siamo in pieno Manierismo e le acrobazie dell’Arcimboldo finiranno col sedurre un collezionista vorace quanto raffinato ed eclettico come l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, nel suo quartier generale di Praga.
Accendiamo ora i riflettori su quel genio indiscusso che fu Caravaggio (1571-1610). All’Ambrosiana di Milano si trova la Canestra di frutta, dipinta intorno al 1596 dall’artista lombardo. Un lavoro su commissione, regalo del cardinale Francesco Maria Del Monte a Federico Borromeo, rappresenta un pilastro nel suo genere. È da qui che prenderà inizio e con un successo pressoché costante nell’arte la rappresentazione di quella che gli inglesi chiamano still life: la natura morta.
Caravaggio, "Canestra di frutta"
Un genio controcorrente come Michelangelo Merisi non poteva non lasciarsi andare all’azzardo. Il punto di vista, innanzitutto, praticamente a raso del tavolo. E poi quelle due mele: una buona, nascosta, e una bacata, in bella mostra. Un fine moraleggiante, un monito alla vanitas. Vietatissimo lasciarsi attrarre dalla caducità della vita terrena, che Caravaggio contrappone alla vita eterna, alla gioia della salvezza, rappresentata nel quadro dalla luce dorata che fa da sfondo al cesto, in bilico sul piano della tavola.
Numerose e colorate le mele ritratte da Maurice Brazil Prendergast (1858-1924), post-impressionista americano che risente molto, anche nelle tonalità cromatiche, dell’opera di Paul Cèzanne, ma anche – seppur in misura minore – di Vincent Van Gogh, di George Seurat e di Pierre Bonnard.
Come non dire, a questo punto, delle celeberrime mele di Cèzanne (1839-1906), esposte al museo d’Orsay di Parigi? Se non cambia la rappresentazione e cioè il soggetto, con Cèzanne cambia il punto di vista, si apre a una visione molteplice, mentre le forme si semplificano. Siamo nel cuore dell’impressionismo, eppure si colgono i prodromi della rivoluzione cubista.
Dalle mele alla mela. Quella dipinta nel 1937 dal surrealista svizzero Alberto Giacometti (1901-1966), ospitata al Moma di New York, la Grande Mela.
Ed è un surrealista anche il belga René Magritte (1898-1967), che si è spinto a raffigurare un uomo con una mela verde a coprire il volto.
Il figlio dell’uomo è il titolo di una tela dal significato tuttora oscuro. Effetto della guerra che annulla la personalità, come ipotizzano alcuni. Ma sono possibili altre interpretazioni. A partire dal ruolo del sogno sulla stessa realtà. D’altronde, stiamo parlando della corrente fondata da Breton.
Una curiosità come congedo. Secondo i celti, l’aldilà era un altrove chiamato Avallon: l’isola delle mele, come la radice indoeuropea della parola, abel o aval, da cui appunto apple in inglese e appfel in tedesco.