Viva la qualità, nel segno del made in Italy. Sarà pure stata una coincidenza, ma nel giro di una settimana si è intonato per ben due volte l'inno della qualità dei prodotti tipici italiani, quelli che si fregiano delle denominazioni europee; dai più celebrati Dop alle Indicazioni geografiche protette Igp (una vita da mediani) fino al più sparuto drappello di Stg (Specialità tradizionali garantite).

Diciamolo pure, il vanto dell'agricoltura italiana, di un pezzo dell'industria convertita (suo malgrado) alla filosofia Dop e di un esercito di consumatori  buongustai che, per nostra fortuna, diventa sempre più numeroso anche sui mercati internazionali.

Cos'è successo di tanto importante?
Il primo evento, la settimana scorsa, a Bruxelles, dove di fatto ha tagliato il traguardo il tanto atteso Pacchetto qualità. Il secondo, martedì scorso, quando l'Istat ha diffuso i dati che confermano il primato assoluto dell'Italia, che con 244 denominazioni riconosciute da Bruxelles rafforza il suo primato in questa speciale classifica.
Se però dall'inevitabile euforia degli eventi, si passa a un'analisi più approfondita di come stanno veramente le cose, bisogna dire che non è proprio tutto oro quello che luce.

Prendiamo il Pacchetto qualità, i cui elementi essenziali sono stati già sintetizzati su Agronotizie della scorsa settimana. Tra questi spicca, fortemente sollecitato dall'Italia, la cosiddetta la "protezione ex officio" dei marchi a denominazione d'origine. Il che vuol dire, rispolverando il latinorum giuridico, diventato ormai un must nei tanti commenti entusiasti, che i singoli Stati saranno obbligati ad attivarsi per tutelare le indicazioni geografiche anche degli altri partner comunitari.

E' questo un punto molto importante, perché in futuro non si ripeterà la vicenda del parmesan, l'ennnesimo caso di imitazione del vero Parmigiano, commercializzato in Germania.
Dopo la causa vinta dal Consorzio di tutela e la conseguente condanna della Corte di Giustizia, la tanto efficiente amministrazione tedesca si era sistematicamente rifiutata di attivarsi per porre fine alla frode commerciale.

Non è invece passato, nonostante l'attivismo del ministro Catania e del presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo, Paolo De Castro, l'altro punto che sta a cuore all'Italia: la possibilità per i Consorzi di tutela di regolamentare i volumi della produzione Dop in funzione delle condizioni più o meno favorevoli del mercato.
Si tratta di un'antica questione, più sentita ovviamente nei momenti di crisi di mercato, sulla quale era intervenuta più volte l'Autorità per la concorrenza del nostro Paese.
La bocciatura di questa richiesta ha destato più di qualche perplessità, visto che solo qualche mese fa, con il varo del Pacchetto latte, questa possibilità di autoregolamentare la produzione era stata autorizzata per i formaggi Dop.
Due pesi e due misure, nella migliore tradizione dell'incoerenza e delle contraddizioni che caratterizzano da sempre le decisioni dell'Unione europea in materia di qualità.
Basti pensare alla battaglia che da decenni l'Italia sta combattendo per far passare l'obbligo di indicare sull'etichetta l'origine della materia prima: concessa, a esempio, per il latte fresco, negata per il latte a lunga conservazione. Misteri comunitari!

Il ministro Catania ha ribadito, commentando l'approvazione delle misure Ue, che questa partita non è chiusa e che la riaprirà nell'ambito del negoziato sulla riforma della Pac.
Vediamo come andrà a finire.

Certo, va anche osservato che i Consorzi di tutela e gli operatori della filiera Dop potrebbero comunque organizzare meglio i loro flussi produttivi, programmare l'offerta sulla base del trend dei consumi e dell'export.
Non si può avere la pretesa di porsi come modello di eccellenza e di efficienza, senza tener conto dell'elementare legge della domanda e dell'offerta, salvo poi chiedere aiuto allo Stato perché ritiri dal mercato i prosciutti o i formaggi, accollando alla collettività il costo della loro incontinenza produttiva.

Qualche considerazione va fatta sul record italiano delle Denominazioni d'origine omologato dall'Istat. A ogni nuovo marchio riconosciuto da Bruxelles, saltano tappi di champagne (scusate, spumante) per festeggiare l'ennesimo bollino.

Ma il vero business, lo dicono impietosamente i numeri, è nelle mani di pochi marchi: l'80% del valore di questo di mercato è concentrato su una decina di grandi firme, e per l'export la percentuale è ancora più impietosa.
Certo c'è una fascia mediana che ha una sua dignità economica e può crescere. Ma sono ancora tanti, troppi, i marchi sotto i quali non c'è prodotto. Con il risultato di banalizzare il valore economico e commerciale del marchio Dop.
Se è un problema di tradizione, ci sono altre strade, come l'Albo delle specialità tradizionali, che consentono di salvaguardare la tipicità dei mille campanili italiani e far risparmiare ai poveri agricoltori il costo aggiuntivo della certificazione e degli oneri consortili.
Tanto il primato non ce lo toglie nessuno.