A dirlo è Dario Casati, economista agrario, già prorettore dell'Università di Milano, che tratteggia un affresco meno lucente rispetto al presidente di Coprob, Claudio Gallerani.
"Credo purtroppo che, alla luce delle dinamiche in atto su scala nazionale ed europea, per l'Italia l'impatto della liberalizzazione del mercato dello zucchero sarà molto più contenuto rispetto ad altre realtà, come Francia, Germania o Austria", commenta Casati.
"L'Italia ha commesso il tragico errore di lasciar morire la filiera bieticola saccarifera. E la colpa non è solo dell'agricoltura, ma anche della parte legata alla trasformazione dello zucchero - prosegue -. Oggi, comunque, sono lodevoli gli sforzi di una parte della filiera di rilanciare le semine e le rese. Non sono sicuro, però, che questa rinnovata attenzione si traduca in un reale rilancio del settore. Certo, è innegabile che avrebbe fatto comodo poter contare sulla bieticoltura, per lo meno per diversificare e poter contare su un'opportunità in più".
L'Italia, ricorda Casati, "è uno dei grandi consumatori di zucchero, con 1,7 milioni di tonnellate utilizzate all'anno".
La scelta di abbandonare il settore non è di ieri, ma risale già agli anni Ottanta. "Storicamente il bieticolo saccarifero è stato un settore molto protetto, anche per motivi storici e di interesse strategico - specifica Casati -. E' stato uno degli ultimi settori in cui il prezzo era fissato dal Cip, il Comitato interministeriale prezzi. Questo ha fatto sì che, rispetto ad altre realtà, l'Italia non fosse così concorrenziale, anche per situazioni di tecniche agronomiche, legate alla logistica e al costo del lavoro".
Fu così che, per una scarsa organizzazione del sistema e, in particolare, di un deficit competitivo della fase di trasformazione, l'industria ottenne il piano di riordino degli anni '80, con il dimezzamento degli impianti in funzione (passati da oltre 80 a circa 40), finanziati da adeguati aiuti per la dismissione.
"Fu allora che venne abbandonata la quota produttiva italiana - sostiene Casati - comportando di fatto l'autoesclusione dell'Italia dal circuito dei principali paesi produttori".
Lo choc successivo avvenne nel 2006, con la riforma operata dall'Unione europea. "L'allora ministro dell'Agricoltura Gianni Alemanno acconsentì a sacrificare, di fatto, la bieticoltura - ricorda Casati -. E oggi, che avrebbe fatto comodo avere una coltura in più per attuare una diversificazione produttiva, questa manca all'appello e, a mio parere, difficilmente potremo contare su una ripresa apprezzabile delle barbabietole da zucchero, perché l'industria ha abbandonato il terreno e gli agricoltori, di fatto, restano al palo, nonostante comunque sforzi apprezzabili. Già oggi la produzione è dell'80% in meno rispetto al 2006".
In pratica, è accaduto quanto avvenuto anche in altri settori produttivi, con la grande industria alimentare che ha progressivamente abbandonato il comparto nelle mani di altri soggetti, più prossimi al settore agricolo, e questo perché il valore aggiunto è più basso rispetto al passato. Uno scivolamento fisiologico, con l'industria che si è defilata, cercando spazi dove il valore aggiunto era maggiore e con il mondo agricolo che si è ritrovato, più o meno consapevolmente, a gestire da solo o in forma aggregata, settori in cui l'innovazione tecnologica era meno spinta.
Che cosa succederà? Non cambierà molto, forse nulla, con il 1° ottobre prossimo. Le conseguenze della liberalizzazione sfioreranno appena i piani produttivi nazionali e l'Italia "continuerà ad acquistare lo zucchero all'estero, come facciamo adesso".
Lo zucchero è una delle dimostrazioni, secondo Casati, di come "si siano fatte delle scelte politico-programmatiche, ma in totale assenza di strategie. Una mancanza di orientamento sul futuro delle colture agricole che pesa anche oggi, col rischio poi di cadere nella speranza che sia un'etichetta ad aggiustare tutto".
E' una coltura che, storicamente, ha avuto anche limiti territoriali ("era coltivata quasi esclusivamente al Nord", sottolinea Casati) e che, in quanto soggetta a vincoli contrattuali di tipo industriale, scontava tassi di litigiosità fra i più elevati all'interno della filiera.
"Sono tanti peccati originali - conclude Casati - che non so se le sfide delle nuove colture, più produttive e con meno costi di produzione correlati, riusciranno a colmare".