La premessa dell’autore è doverosa: “Il libro non ha un’accezione negativa nei confronti dell’agricoltura, ma semplicemente la racconta e cerca di svelarne tutti gli aspetti e i retroscena”.
Un chiarimento che Davide Ciccarese ritiene necessario, perché il suo Libro nero dell’agricoltura, edito da Ponte alle Grazie (14 euro), ha spaventato alcuni. “Invece ho scelto un titolo ad effetto perché serve attenzione sul tema”.

Servono i riflettori accesi su un settore imprescindibile per la vita stessa, ma che non sempre brilla.
Sta scritto nel libro, nel capitolo dedicato al lavoro nero: “La situazione descritta dall’Inea, Istituto nazionale di economia agraria, denuncia un forte aumento dei cittadini extracomunitari che finiscono nel baratro dell’agricoltura nera: dal 1989 al 2007 si è registrato un aumento del 700% - in cifre: da 23.000 a 172.000 persone”.
E ancora: “Secondo la Fao, in Africa Sub-Sahariana, in America del Sud, nel Sud Est-Asiatico e in Nord Europa oltre la metà delle terre coltivate è interessata alla desertificazione. L’agricoltura può essere preziosa per salvare le terre in pericolo: al mondo ci sono 4,4 miliardi di ettari da coltivare”.
Eppure, si legge sempre nel libro, ne sono messi a coltura 1,6 miliardi e di questi il 20% si trova su terre poco adatte all’agricoltura.

Il libro è ben scritto e adeguatamente documentato. Requisiti che ci hanno spinto a rivolgere alcune domande a Ciccarese, che tiene un blog su Il Fatto Quotidiano e che in passato è stato anche direttore di AcliTerra Lombardia.


Nel 2011 in Francia è uscito un libro di Isabelle Saporta intitolato Le livre noir de l’agriculture. Si è ispirato a quello, avendo studiato in Francia?
“Il mio editore me ne aveva inviato uno. L’ho ovviamente letto come documentazione del libro. Aveva alcuni approfondimenti che erano molto legati al territorio francese, caratterizzato da un’agricoltura di grande estensione. Diversa da quella italiana”.

In che misura?
“L’agricoltura francese è molto competitiva, molto più meccanizzata della nostra e, direi, complessivamente più avanzata dal punto di vista tecnologico. Anche sul piano dei processi sono più avanti di noi. Addirittura alcuni dicono che i francesi sono avanti di 20 anni rispetto a noi.
È un giudizio che non condivido, anche perché se guardiamo a che livello è arrivata la quarta gamma in Lombardia, credo non abbiano nulla a che invidiare ai francesi di Bonduelle”.


 
Assolutamente nulla, anche perché la Bonduelle si è insediata anche in Lombardia. Ma secondo lei, qual è lo stato di salute dell’agricoltura e come vede il suo futuro?
“Uno dei dati più allarmanti coi quali l’agricoltura italiana deve fare i conti è l’età avanzata. L’età media degli agricoltori è veramente alta, anche in regioni fortemente agricole come la Lombardia. Nel Parco Sud di Milano gli agricoltori hanno tra i 50 e i 60 anni, se non di più.
D’altronde se guardiamo il fatturato medio di un’azienda agricola italiana è di circa 29.000 euro, mentre un’azienda di trasformazione alimentare tocca 1,4 milioni di euro, cioè 49 volte di più. Questo non libera dalla dipendenza eccessiva dagli aiuti comunitari. Il 90% delle aziende agricole senza la Pac non riuscirebbe a sopravvivere.
Eppure la mia non è un’accusa agli agricoltori di non essere capaci di fare imprese, cerco piuttosto di difenderli: sono molto bravi a fare qualità, ma il fatturato è troppo basso per garantire un futuro per le nuove generazioni. Anche se gli ultimi dati dimostrano che il settore attrae i giovani”.


La liberalizzazione dei terreni demaniali da destinare ai giovani agricoltori, voluta dal governo Berlusconi e confermata sulla carta anche da Monti, è rimasta lettera morta…
“Già. L’idea era facilitare l’accesso alla terra. Nel frattempo, però, si è accesa una polemica e alcuni, come la Coldiretti, hanno lamentato che per l’acquisto dei terreni demaniali sarebbero stati necessari investimenti ingenti e non si sarebbe risolto il problema dei giovani. Aiab propose di dare le terre in affitto o cederle gratuitamente, se destinate all’agricoltura. Invece non se ne è fatto nulla”.

Rimaniamo con lo sguardo rivolto alle future generazioni: la riforma della Pac cerca di garantire maggiore attenzione ai giovani agricoltori…
“Sì, questo è vero. Ma il problema di politiche a medio-lungo termine come la Pac è che quando vengono decise è estremamente difficile prevedere quello che accadrà, soprattutto in un settore come l’agricoltura che ha dinamiche naturali. In ogni caso, il punto è che bisognerebbe facilitare le norme di accesso e banalmente cercare di creare aziende efficienti, ma senza dare fondi ogni anno, che danno per così dire dipendenza.”

Questo significa che il trend di chiusura delle aziende agricole proseguirà?
“Purtroppo questa è la tendenza. Tra il 2000 e il 2009 hanno chiuso 400.000 imprese agricole in Italia e si prevede che per il 2015 ne chiuderanno altre 500.000, su 1,6 milioni attive oggi”.

Nel suo libro sembra guardare con particolare attenzione ad un modello di agricoltura “contadina”. Per quale motivo?
“Perché credo nelle piccole aziende, che rappresentano un’opportunità per i giovani sul piano del lavoro e dell’affermazione personale. D’altro canto l’agricoltura intensiva, non sul piano strutturale, ma nei metodi, ha provocato impatti ambientali molto devastanti. È il caso della Francia dove gli allevamenti intensivi di maiali creano ondate di alghe, ma una situazione analoga si registra anche in Cina. Fenomeno che non appartengono all’agricoltura italiana”.

Suona come una critica all’agricoltura moderna…
“Non sono contrario a quella agricoltura capace di innovarsi e di utilizzare gli strumenti tecnologici e le innovazioni dell’ultima ora. Un discorso analogo vale per l’agricoltura intensiva: deve essere vista nell’ottica della capacità di utilizzare al meglio gli strumenti a disposizione. Con un popolazione mondale in crescita, va bene anche l’agricoltura intensiva, purché sia a basso impatto ambientale”.

Nel libro lei scrive che nel 2030 si prevede che i terreni destinati ai biocarburanti aumenteranno del 400 per cento...
“Il dato è della Land coalition ed è una proiezione. Da qui al 2030 dobbiamo vedere come si evolve l’energia, ma di base tutte le produzioni legate a energie verdi cercano di anno in anno di aumentare i rendimenti.
Un pericolo che è stato avvertito da molte realtà che si occupano di agricoltura è che, con le nuove politiche, se il greening andrà a sostenere la produzione energetica e con consumi di carne sempre più in crescita a livello mondiale, la conseguenza sarà un aumento dei prezzi alimentari. Ma non per questo dovremo diventare vegetariani”.


Una delle piaghe denunciate dal mondo agricolo è il consumo di suolo.
“Esattamente, purtroppo la Lombardia detiene il triste record di 13 ettari persi ogni giorno. Eppure, credo che con 4 milioni di case costruite in Italia negli ultimi dieci anni e di 5,2 milioni di case sfitte o invendute, potremmo non costruire per i prossimi 10 anni. E questo è uno dei grandi problemi per l’agricoltura, oltre all’abusivismo edilizio”.

Col 2015 le quote latte verranno abolite. Quali sono le sue previsioni?
“Le quote latte sono state una sofferenza enorme e, data la situazione attuale, è sempre un argomento molto delicato. L’Italia è sempre stata molto penalizzata dalle quote latte e ritengo che per un certo verso gli agricoltori accolgano con favore la fine del regime delle quote. Tuttavia, il confronto sarà con quei Paesi che hanno investito di più e che saranno più competitivi”.

La Svizzera è stato il primo Paese al mondo a garantire i diritti delle piante. Condivide questa impostazione?
“In Italia abbiamo normative, di carattere regionale, che proteggono le piante a rischio. Però parlare di diritti della piante mi sembra un concetto un po’ forte; basterebbe forse basarsi sull’andamento della natura. Per tutti credo sia un valore salvaguardare la fertilità dei suoli, capire i cicli ecologici delle piante e difendere il terreno dall’erosione”.