Un doppio filo lega denutrizione e mondo agricolo. Un paradosso: proprio coloro che sono delegati alla produzione di beni alimentari sono i primi ad esserne privati. I tre quarti di chi soffrire la fame nel mondo appartiene alla categoria dei piccoli agricoltori.
Di questo esercito le donne, nei Paesi in via di sviluppo, “costituiscono la maggioranza pur giocando tuttora un ruolo importante nell’allevamento, in agricoltura, nell’uso e nel mantenimento delle risorse naturali”.
A dirlo è il rapporto 'Il pane e le rose' pubblicato da ActionAid, Onlus accreditata presso il ministero degli Affari esteri come Ong e presente in Italia dal 1989.
“Il loro ruolo” si legge nel rapporto, “è per lo più attivo nella produzione di mais, riso e cassava, utili alla sussistenza delle famiglie”. I loro guadagni, spiega l'associazione, spesso sono reinvestiti per le necessità e il benessere della famiglia e quindi non vanno a produrre ricchezza economica immessa sul mercato. Di conseguenza, l'operato delle donne non viene contabilizzato nel Pil nazionale; nell’agricoltura di larga scala o comunque destinata alla commercializzazione, che genera ricchezza, sono per lo più coinvolti gli uomini.
A non essere considerato, prosegue il rapporto, è anche l'aspetto sociale che le donne giocano all'interno dell'economia rurale dei Paesi in via di sviluppo. Attive nella raccolta dell’acqua, della legna, nei programmi di conservazione del suolo e nel tramandare conoscenze tradizionali sull’uso medico delle piante e sulla conservazione dei semi, sono le custodi di un enorme patrimonio di competenze. Patrimonio che, spiega ActionAid, “portano con sé come bagaglio anche quando migrano verso le città, contribuendo allo sviluppo dell’agricoltura urbana e suburbana, sempre più riconosciuta come vitale per la sicurezza alimentare delle città”.
Ciò si verifica, denuncia l'associazione, pur nelle differenze di contesto, sotto ogni latitudine.
“Le donne contadine, oltre a dover spesso affrontare discriminazioni nella proprietà ed eredità della terra, non ricevono adeguato sostegno da parte delle istituzioni locali e nazionali, né sono sempre riconosciute come soggetti economici da coinvolgere nei programmi di sviluppo rurale”.
“Garantire parità alle donne che lavorano in agricoltura nei Paesi in via di sviluppo è l'unica strada per ridurre la fame” ha affermato commentando i dati da poco pubblicati dalla Fao nel rapporto Sofa, Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid.
Se le donne avessero le stesse opportunità degli uomini nell'accesso alla terra, alla tecnologia, ai servizi finanziari e ai mercati, la produzione agricola dei Paesi in via di sviluppo potrebbe aumentare tra il 2,5 e il 4 per cento portando alla riduzione del numero degli affamati di 100-150 milioni di unità.
E in Italia cosa succede? “Anche in Italia” si legge nel rapporto, “è necessario abbattere le discriminazioni nell’accesso al credito agricolo e dare visibilità alla presenza delle donne nel settore”.
Alla retorica che ribadisce l’importanza delle donne in agricoltura, prosegue il rapporto che per l'edizione 2011 grazie anche alla collaborazione con l'associazione Donne in Campo di Cia ha dedicato un'ampia sezione alla situazione italiana, “spesso non corrispondono politiche, misure legislative, ricerche e analisi che possano andare a beneficio delle imprenditrici agricole”.
Nel contesto nazionale, prosegue il rapporto di ActionAid, “l’ingresso massiccio delle donne nel mondo agricolo è un fenomeno relativamente recente: nel 1970 su 100 aziende solo 19 erano condotte da una donna; trent’anni dopo la quota ha raggiunto il 31%”.
Dati provenienti dall’Atlante delle donne impegnate in Agricoltura realizzato nell’ambito della Rete rurale del Mipaaf e citati da ActionAid, evidenziano come in Italia più di 3 aziende agricole su 10 siano condotte da una donna, il che ci colloca al quinto posto in Europa.
Molise, Campania, Valle d’Aosta e Friuli sono le regioni a maggior presenza femminile, mentre Trentino Alto Adige, Sardegna e Lombardia chiudono la classifica.
Sono diminuite negli ultimi sette anni le giovani imprenditrici, che passano dal 30 al 27%, così come le giovani donne che lavorano all’interno dell’impresa agricola di famiglia scendono da circa 940mila unità nel 2000 a 250mila nel 2007. Ciononostante siano largamente riconosciute le loro capacità gestionali e d'innovazione.
“Come a livello globale” spiega il rapporto, “anche in Italia si ha consapevolezza del ruolo importante che le donne ricoprono nel settore dell’agricoltura, ma da questo riconoscimento non derivano sempre misure di supporto adeguato che consentano alle agricoltrici di sviluppare il loro potenziale come motori di cambiamento della società e di un settore produttivo cruciale”.
Cosa chiedono dunque le donne italiane? Le richieste riguardano il ripristino di un Fondo nazionale per l’avvio, lo sviluppo e il consolidamento delle imprese femminili dal momento che gli incentivi all’imprenditoria agricola femminile sono di fatto bloccati da diversi anni.
La Legge 215/92, che prevedeva azioni positive e facilitazioni per le imprese 'in rosa' sia da avviare che già esistenti, non viene rifinanziata dal 2006. Servono inoltre, spiega il rapporto, interventi per facilitare l’accesso al credito attraverso fondi di garanzia; incentivi per la costruzione di forme di integrazione, formazione, innovazione, ricerca e internazionalizzazione.
Mancano poi misure volte a stabilizzare e aumentare l’occupazione femminile anche in agricoltura.
“Può stupire che le donne affrontino discriminazioni nell’accesso al credito anche in Italia” spiega ActionAid “eppure la problematica evidenziata per le donne del Sud del mondo è sentita, con misure e caratteristiche diverse, anche nel nostro Paese”.