La qualità come faro, la volatilità come fantasma, la soccida che avanza e la gdo che decide. Sono queste, riassunte all’estremo, alcune delle grandi tendenze della suinicoltura italiana, schiacciata da costi di produzione che salgono e da redditi sempre più compressi.
Se ne è parlato a Reggio Emilia, alla Rassegna suinicola internazionale, appuntamento tradizionale per fare il punto della situazione di un comparto che ha di fronte poche soluzioni, ma qualche asso nella manica.

“La qualità resta l’obiettivo da non sottovalutare per nessuno motivo – ammonisce Paolo Tanara, presidente del Consorzio del Prosciutto di Parma, la Dop più conosciuta della suinicoltura made in Italy – ma la situazione attuale suggerisce inevitabilmente un confronto serrato all’interno della filiera: servono strategie di mercato in Italia, dove i consumi alimentari sono in diminuzione, e per conquistare i mercati esteri, dove il Prosciutto di Parma colloca il 25% delle cosce prodotte”.

L’obiettivo è la sostenibilità produttiva, a fronte di una Grande distribuzione “che detta la linea e di fronte alla quale gli allevatori non potranno mai imporre la propria linea. Piuttosto, dovranno sapersi adattare alle esigenze dei consumatori con maggiore flessibilità”, è l’opinione di Giulio Zucchi, docente emerito di Economia ed estimo rurale dell’Università di Bologna. Sarebbe impossibile, prosegue, “avere la supremazia come anello produttivo all’interno di una filiera in cui gli allevatori incidono per il 15% della formazione del valore e il 35-40% le parti della macellazione e trasformazione. Ma in ogni caso serve un leader che comanda l’offerta, per sostenere le quotazioni”.
Le quotazioni rappresentano uno dei tasti dolenti, ad oggi, della produzione di suini. Con la Cun intorno a 1,300 euro per chilogrammo e costi di produzione che, sottolinea Kees de Roest del Crpa, “non è inferiore a 1,503 euro per chilogrammo”, rappresenta un problema non indifferente.


 Giulio Zucchi, docente emerito di Economia ed estimo rurale dell’Università di Bologna

“Il prezzo dei suini ci sta mettendo in forte crisi – dichiara Andrea Cristini, presidente di Anaseppure non dovrebbe essere colpa di un eccesso di domanda, visto che nel 2012 il numero di scrofe, anche per effetto delle normativa sul benessere animale, è scesa del 12%, perdendo poco più di 100mila unità”. Ma non è tutto. “Nei primi due mesi del 2013 sono stati macellati 230mila suini in meno rispetto allo stesso periodo del 2012, mentre i costi di produzione sono aumentati del 23 per cento”.

Salgono anche le importazioni di suini dall’estero: 1,5 milioni di animali e 26 milioni di prosciutti non Dop. Che l’Italia, è convinto Giambattista Testa, consulente di Aps Piemonte, “potrebbe in parte iniziare a produrre, diversificando fra linea pesante per i circuiti tutelati e suini medio-leggeri”.
Un progetto al quale sta lavorando anche la Regione Piemonte, dopo che sul versante lombardo ed emiliano le iniziative in tal senso sembrano essersi al momento raffreddate.
Si tratterebbe infatti di produrre capi pronti per la macellazione a 130-135 kg, con caratteristiche qualitative comunque elevate, seppure non Dop. La finalità potrebbe essere rivolta alla produzione di speck e prosciutto cotto, con l’assorbimento in filiera leggera fino a 180mila suini. Tutto ciò con l’obiettivo di contenere i costi alimentari.

Le stime della Fao e del Dipartimento dell’agricoltura Usa (Usda) sui prezzi dei cereali sono moderatamente ottimistiche per i prossimi mesi, “ma non dobbiamo pensare che il rischio volatilità sia scomparso. Anzi, a partire dalla riforma della Pac targata Fischler il rischio rally è aumentato”, afferma Gabriele Canali, docente di Economia delle filiere agroalimentari e direttore del Crefis, il centro per la ricerca nelle filiere suinicole.
“Qualche tensione – preconizza – potremmo aspettarcela dal mercato Usa, visto che la siccità ha frenato i raccolti di mais”. Ma forse, nonostante gli strascichi delle aflatossine, il rischio speculazioni, i cereali potrebbero essere solamente lambiti da scenari eccessivamente rischiosi.

All’orizzonte anche la procedura d’infrazione per l’allevamento in gruppo delle scrofe. “L’Italia, d’altronde, si vedrà recapitare il monito di Bruxelles, perché dal 1° gennaio il Paese è in infrazione rispetto alla Direttiva europea”, riconosce Leonardo Nanni Costa, professore ordinario e vicepresidente della Scuola di Agraria dell’Università di Bologna.
Rispetto all’Europa, l’Italia della suinicoltura e delle grandi eccellenze agroalimentari deve recuperare terreno sul piano della fertilità e dello svezzamento. “Danimarca, Francia, Germani e Olanda corrono di più – insiste De Roost -. L’Italia è fanalino di coda in termini di produttività globale”.
E basta un dato a rimarcare il trend: la Danimarca svezza 27 suinetti per scrofa, l’Italia 22.
Fra le grandi tendenze in atto, non si può minimizzare l’avanzata della soccida, che potrebbe essere ormai arrivata al 50% degli allevamenti italiani, che cedono imprenditorialità e forse anche competitività, come conseguenza.
L’opinione condivisa è che serva un rilancio del dialogo di filiera, per diversificare, puntare sulla qualità, dare risposte rapide e integrate. Bene dunque le organizzazioni di produttori, “così come i distretti suinicoli e le Oi”, garantisce Canali.
Un esempio di successo che sale sul palco della Suinicola di Reggio Emilia è Lorenzo Fontanesi, al vertice di Opas, Op che commercializza oltre 400mila suini e che nel 2012 ha fatturato 109 milioni di euro.
“Puntiamo a stringere alleanze ancora più strette con Assocom – anticipa – e la porta è aperta agli allevatori che credono nel ruolo delle organizzazioni di produttori”.
Una frase che lascia intendere – supponiamo noi – sviluppi ulteriori di sinergie, non solo con i colleghi del Bresciano e del Cremonese.