Si è da poco concluso il progetto europeo 7FP QuESSA (Quantification of Ecological Services for Sustainable Agriculture) che aveva lo scopo di misurare i servizi ecosistemici degli habitat seminaturali in agricoltura, cioè i benefici che le zone non coltivate (oppure gestite in modo poco intensivo) possono offrire all’attività agricola.

Per habitat seminaturali infatti si intendono tutte quelle aree parzialmente gestite dall’uomo, come siepi, filari alberati, aree boschive, margini stradali inerbiti, aree incolte.

Queste aree hanno una notevole importanza sia naturalistica, poiché possono ospitare animali selvatici e flora spontanea, sia agro-ecologica, perché possono fornire servizi utili all’attività agricola: possono, ad esempio, apportare nutrienti e sostanza organica al suolo, funzionare come zone di rifugio e di alimentazione per impollinatori e altri insetti utili, e – in ultima istanza – portare benefici anche alle coltivazioni.

Inoltre, se gestite bene, possono migliorare l’aspetto estetico dei paesaggi agrari rendendoli più attrattivi per attività economiche, come quelle ricreative ed agrituristiche.

L’importanza degli habitat semi-naturali per il corretto funzionamento degli agro-ecosistemi è riconosciuta anche a livello comunitario, al punto che per poter accedere ai premi addizionali della Pac previsti dal cosiddetto greening, gli agricoltori devono sottoscrivere un impegno formale a garantire la presenza di una quota minima di aree seminaturali, le cosiddette Afe, aree a focus ecologico, una quota almeno pari al 5% della superficie coltivata a seminativi.

Il problema è trovare un metodo scientifico per quantificare questi benefici, e su questo si è focalizzato il progetto QuESSA, attivato in 8 Paesi, fra cui l'Italia, con un lavoro di ricerca di quattro anni, dal 2013 al 2017.

Per l'Italia il progetto è stato portato avanti dai ricercatori della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e del Ciraa, il Centro di ricerche agro-ambientali “Enrico Avanzi” dell'Università di Pisa.

Lo studio si è concentrato su due potenziali servizi ecosistemici: l’impollinazione della coltura del girasole, assai diffusa nella Piana di Pisa, e il controllo della mosca olearia negli oliveti dei Monti Pisani.

In entrambi i casi, i ricercatori hanno preso in esame 18 appezzamenti (i cosidetti focal fields), al cui bordo erano presenti habitat semi-naturali oppure altre coltivazioni, e a distanza crescente dai quali sono stati misurati diversi servizi ecologici.

Inoltre, nel raggio di 1 km di distanza, è stato censito l'uso del suolo al fine di capire se anche la quantità di altri ambienti semi-naturali attorno ai focal fields potesse influire sui servizi ecologici forniti.
 
Un'ape mellifera su girasole 
(Fonte foto: © Daniele Antichi - Università di Pisa)

Per quanto riguarda l'impollinazione del girasole, è stato dimostrato che nei diversi habitat seminaturali presenti sul territorio della pianura di Pisa siano presenti sia impollinatori selvatici, in particolare le api selvatiche (superfamiglia Apoidea), sia le comuni api da miele (Apis mellifera L.), allevate dagli apicoltori per la produzione di miele di girasole nell'area in oggetto e che sono risultate numericamente più abbondanti rispetto agli altri insetti pronubi, garantendo oltre il 95% delle visite fiorali, come già noto da precedenti studi.

Pertanto l'attività di impollinazione del girasole sembra essere supportata più dall'ape da miele che da impollinatori selvatici, i quali tuttavia potrebbero trarre i maggiori benefici dalle aree semi-naturali.

Diverso è il caso delle colture foraggere, come, per esempio, l'erba medica o il trifoglio incarnato, dove le api da miele sono notoriamente molto meno efficienti di altre specie di api selvatiche, come le api tagliafoglie del gruppo dei megachilidi. In questo caso gli habitat seminaturali potrebbero avere un'importanza maggiore nell’attrarre e sostenere le rispettive popolazioni.

Sempre riguardo al girasole è stato osservato un altro fatto interessante. Anche nelle moderne varietà considerate ad alti livelli di autofertilità, l'azione pronuba degli insetti apportava comunque sostanziali benefici alla coltura in termini di resa in granella e di percentuale di semi fertili per calatide, nell'ordine del 20-25% in più rispetto a calatidi sperimentalmente isolate dagli impollinatori.

E, per le varietà meno autofertili, i vantaggi dovuti alla presenza di insetti impollinatori sono risultati ancora più marcati, con aumenti di resa in granella e in olio superiori di circa il 5% rispetto alle varietà autofertili nel caso in cui l'impollinazione fosse garantita in maniera sufficiente dalle api del miele.

Dai risultati emersi dallo studio, per ottenere un’impollinazione adeguata sembra che siano necessarie almeno 25 visite per calatide ogni ora, indipendentemente dal grado di autofertilità della varietà.

Oltretutto è emerso che numero e vicinanza delle arnie ai campi di girasole, così come la percentuale di siepi e margini dei campi con alberi o cespugli, possono incidere sul grado di impollinazione.

Al contrario, prati, incolti e bordi inerbiti la limitano leggermente. Il motivo di questo lieve effetto negativo, noto anche per altre colture, è da individuarsi in un effetto di competizione per gli impollinatori tra girasole e altri ambienti ricchi di specie a fioritura simultanea con quella della coltura.

Questa competizione però non è da considerarsi negativa in termini assoluti, perché è stato inoltre dimostrato che l’ape del miele e le altre api selvatiche facciano largo uso di polline raccolto in questi ambienti, a dispetto del polline prodotto dal girasole che non è risultato molto appetito, soprattutto dalle api del miele. Sia le api del miele sia le altre api selvatiche infatti usano non solo il nettare, ma dipendono anche dal polline, risorsa ricca di proteine e importante per la crescita delle loro progenie.

La diversità di tipologie di habitat, quindi, è risultata estremamente positiva, in quanto comporta una diversità floristica a livello di paesaggio che permette agli insetti di trovare fonti di polline e nettare durante gran parte dell’anno, aumentando le popolazioni di questi insetti e quindi, potenzialmente, l'impollinazione delle colture. Nei paesaggi monotoni, le risorse floreali sono molto meno diversificate e questo può risultare in una dieta meno diversificata e periodi con carenze nutritive.
 
Ragnatele su un ramo di ulivo. La presenza di ragni e di ragnatele sembra ridurre sensibilmente gli attacchi di mosca 
(Fonte foto: © Scuola Superiore Sant'Anna Pisa)

Per quanto riguarda, invece, il caso degli oliveti dei Monti Pisani, i ricercatori si sono concentrati sull’effetto che i ragni possono avere sulla presenza di adulti di mosca olearia.

Un primo risultato riguarda l’elevata ricchezza specifica di questi nemici naturali nell’oliveto. Durante lo studio sono state osservate 72 specie, fra le quali 5 nuove segnalazioni per la regione Toscana.

Lo studio ha mostrato una correlazione negativa tra il livello di densità di attività giornaliera della mosca olearia sulle chiome e l’abbondanza di ragni. In altre parole, all’aumentare dell’abbondanza dei ragni, la densità della mosca sulla chioma diminuiva, e ciò avveniva in particolare a inizio infestazione, una fase importante per la complessiva riduzione del danno della mosca durante l’estate.

L’ipotesi dei ricercatori è che la presenza nell’oliveto di numerosi ragni tessitori, in particolare della specie Frontinellina frutetorum, capace di creare ragnatele complesse e asimmetriche, funzioni come un segnale di avvertimento della presenza di un’elevata quantità di possibili predatori per gli adulti di mosca.

Secondo questa interpretazione, la presenza di ragnatele funzionerebbe come segnale di allarme, suggerendo agli adulti di mosca di deviare il volo verso piante o oliveti a minor presenza di ragni.

A livello gestionale, è stata messa in luce una correlazione tra una maggior abbondanza di ragni ed un basso livello di uso dei fitofarmaci in oliveto, a dimostrazione della grande sensibilità di questi organismi utili nei confronti degli insetticidi.

È stata poi valutata anche l'attività di predazione delle mosche a terra. Per farlo sono state installate a terra delle sentinelle costituite da gruppi di 10 pupe di mosca olearia, per valutare quante ne venissero predate da parte soprattutto di ragni e di coleotteri.

I coleotteri, soprattutto i rappresentanti della famiglia dei carabidi e degli stafilinidi, sono ritenuti infatti di estrema importanza, vista la loro elevata numerosità nel periodo autunnale, quando le larve di mosca olearia generalmente si lasciano cadere al suolo e si impupano per svernare.

Il paesaggio circostante l’oliveto pare avere un ruolo di minore rilievo rispetto alle pratiche colturali. Solo la presenza di macchia mediterranea ha infatti influenzato l’abbondanza dei ragni, i quali risultavano diminuire in aree dominate da questo habitat seminaturale di tipo arido. La predazione delle pupe nel suolo, invece, è risultata aumentare laddove la macchia fosse direttamente a confine con l’oliveto in studio.

Il ruolo controverso della gariga mediterranea, la vegetazione erbacea e arbustiva tipica delle zone mediterranee, necessita di ulteriori approfondimenti, in modo tale da determinare il suo effetto sulle diverse tipologie di predatori durante tutto il ciclo vitale della mosca.

Infine, dai diversi studi condotti nell’ambito del progetto, è emersa chiara l'importanza di informare gli agricoltori sulla natura e la finalità dei contributi europei destinati alle aree seminaturali, che spesso sono percepiti come un semplice sostegno al reddito e non come un premio per gli agricoltori più virtuosi dal punto di vista degli impegni agro-ambientali. Un premio che, oltre al corrispettivo in denaro, può portare anche benefici tecnici, e quindi economici, anche per le colture, oltre che per l'ambiente.

E a sua volta un ambiente meno contaminato, ad esempio da un eccessivo uso di fitofarmaci, può offrire ulteriori benefici in termini agroecologici che, a lungo termine, possono ulteriormente contribuire a ridurre la necessità di altri trattamenti fitosanitari.

Un esempio classico è quello degli attacchi da ragnetto rosso nei vigneti, che si riducono spontaneamente riducendo o azzerando il numero dei trattamenti insetticidi che vanno a colpire anche i predatori naturali dell'acaro, rendendo così non più necessari i trattamenti acaricidi.

Un circolo virtuoso che questo studio ha messo in evidenza anche nell'oliveto. Ora l'interesse è quello di conoscere ancora di più questi sistemi, per poterli sfruttare al meglio.