Era notizia del giugno 2018, ma grazie agli inesplicabili meccanismi a orologeria della rete sta tornando a furoreggiare sui social, soprattutto per mano dei cultori dell'allarmismo anti-pesticidi.

Si sta parlando di una ricerca francese dal titolo "Metabolic effects of a chronic dietary exposure to a low-dose pesticide cocktail in mice: sexual dimorphism and role of the constitutive androstane receptor", pubblicata su Environmental health perspectives e firmata dalla bellezza di 19 differenti ricercatori.

Questo ritorno a furor di social ha curiosamene coinciso con la pubblicazione dell'ultimo rapporto di Efsa relativo alla sicurezza degli alimenti, i quali si è ribadito per l'ennesima volta essere sicuri dal punto di vista sanitario anche a fronte di presenza multiresiduale. Un'evidenza che non può essere ovviamente accettata passivamente da chi sull'allarmismo sanitario abbia basato intere carriere, destini personali e associativi. Quindi studi come quello svolto in Francia giungono come manna dal cielo in tal senso.

Ben note le molecole prese in considerazione dalla ricerca transalpina, ovvero boscalid, captano, clorpirifos, thiacloprid, tiofanate e ziram. In sostanza, la ricerca sostiene di aver individuato nelle cavie di laboratorio alcune disfunzioni metaboliche quando esposte continuativamente a un mix di queste sei sostanze attive. Tale mix, fra le altre cose, si narra avrebbe causato diabete e perfino obesità. Da sottolineare che il test è durato un anno, corrispondente a circa 30 anni per l'uomo. Un aspetto che verrà approfondito in seguito.

Ciò che apparirebbe particolarmente grave, secondo lo studio, è che gli effetti si sarebbero osservati a dosi inferiori ai rispettivi Adi delle sostanze prese in esame. Cioè quelle soglie considerate sicure per l'uomo. Da qui l'attacco mediatico alle posizioni di Efsa, la quale si trova quindi a doversi confrontare ancora una volta con singoli studi che vengono strumentalizzati per screditarne l'operato. L'Adi, di fatto, è correttamente fissato operando molecola per molecola. Non può invece essere considerato riferimento unico quando si lavora su differenti mix di molecole. Quando ci si confronta con multi esposizioni vanno infatti considerate le esposizioni effettive al fine di stimare se queste stiano al di sotto della soglia di prima preoccupazione.
Ed è questo che ha fatto appunto la succitata Efsa.

Come per molti altri casi analoghi, è quindi bene analizzare al pettine fine lo studio originale, anziché fermarsi alle sintesi riportate da alcuni media e pagine social.
 

Considerazioni generali

Già leggendo l'introduzione si parte maluccio, vista la citazione del Ddt e dei suoi metaboliti, ovvero di prodotti banditi da oltre 40 anni. A questa se ne aggiunge un'altra di pari caratura, ovvero "Pesticides represent an increasingly widespread environmental contamination". Cioè, i "pesticidi", secondo gli autori, rappresenterebbero "una crescente contaminazione diffusa dell'ambiente". Semplicemente, questo non corrisponde al vero. Le contaminazioni ambientali, inclusi i residui sui cibi, non stanno per nulla aumentando, anzi. Semplicemente le stiamo monitorando meglio. Di fatto, l'esposizione umana via cibo e via acqua è diminuita negli ultimi 30 anni, in accordo con la riduzione delle superfici coltivate, con il tipo di sostanze utilizzate (dosi di etti contro chili), nonché a causa dei sempre più restrittivi disciplinari di lotta integrata.

L'attenzione maniacale al profilo residuale dei raccolti ha inoltre fatto sì che proprio i residui sul cibo fossero altamente controllati e minimizzati. Quindi sta tutto migliorando, non peggiorando. L'affermazione sulla "crescente contaminazione", se unita a quella sul DDT, lascia quindi intuire forse una qualche inclinazione ideologica dei ricercatori che stimola un sano senso critico preventivo.

Il lavoro procede poi con un "Much epidemiological evidence has linked pesticides in water sources, groundwater, and/or foodstuffs with obesity, diabetes, insulin resistance". In sostanza, vi sarebbero studi che dimostrerebbero i legami fra pesticidi e insulino resistenza, diabete e obesità. Peccato che tali lavori siano stati svolti per lo più a carattere generale su contaminanti chimici d'ogni tipo. A prescindere quindi dalla bontà di tali studi, attribuirne i risultati ai soli agrofarmaci non appare corretto. Inoltre, diabete e obesità trovano ampiamente negli eccessi alimentari e nella sedentarietà le loro principali cause. Quindi, attribuire un peso specifico, per giunta additandolo come elevato, a una variabile così ridotta come i residui appare ambizione funambolica.

A meno ovviamente di sovrapporre l'assunzione di residui con il cibo e l'ingestione del cibo stesso. Infatti, al crescere del consumo alimentare cresce parallelamente l'ingestione di residui. Correlare però questi ultimi con diabete e obesità a seguito di questo trend in crescita dei consumi alimentari sarebbe errore marchiano, dato che ben altre sono le cause, ovvero i grassi e i carboidrati che assunti in largo eccesso causerebbero i succitati problemi sanitari. Non certo i residui in sé.

Dopo le prime perplessità giunge per fortuna una nota positiva: la prova avrebbe per lo meno tenuto conto del cibo e dell'acqua consumati, cercando di evidenziare eventuali differenze e rapportando le due diete ai reali quantitativi di cibo e acqua consumati dalle cavie. Quindi, letta così, l'aumento di peso non dipenderebbe da un eventuale maggior consumo di alimenti nei trattati rispetto ai non trattati. E ciò sarebbe approccio corretto. Purtroppo, le figure citate nel testo, ovvero la S3A e la S3B, dalle quali si evincerebbero i numeri a supporto, non le si riesce a trovare nella pubblicazione (*). Chi fosse dotato di vista migliore è gentilmente invitato a fornire indicazioni in tal senso.

Al contrario, in figura 1 si può notare come il peso corporeo delle cavie abbia iniziato a salire velocemente fin dalle prime quattro settimane di pre-test. Ovvero nel periodo di acclimatamento alle gabbie in cui tutti i soggetti sono stati poi alimentati nelle seguenti 52 settimane. Per esempio i maschi sono partiti da circa 26 grammi per arrivare a pesarne circa 29-30 nel momento in cui è iniziata la somministrazione della dieta con o senza "pesticidi". Analogamente, anche nelle femmine si assiste a un incremento del peso antecedente agli inizi dei test.

L'aumento di peso post-somministrazione avverrebbe peraltro praticamente solo nei maschi, con una media finale intorno ai 32 grammi di peso corporeo nei non trattati e ai 36 grammi nei trattati. Questi pesano cioè circa 4 grammi in più rispetto ai non trattati. Di fatto, nell'uomo si parla di "obesità lieve" con incrementi ponderali fra il 20 e il 40% rispetto al peso forma. Fra i roditori trattati e i non trattati vi è una differenza in peso di circa il 12,5%. I trattati non possono quindi essere considerati "obesi", neanche lievi. Curioso poi che vi sia una variabilità molto maggiore nei trattati rispetto ai non trattati, i quali mostrano deviazioni standard risicatissime. Ciò solleva pure qualche perplessità sull'elaborazione statistica. Perplessità che non è però possibile chiarire senza ulteriori informazioni sui dati grezzi di laboratorio.

Stranamente, come detto, il mix di sei "pesticidi" sarebbe stato praticamente senza effetti nelle femmine. Ciò potrebbe apparire in qualche modo coerente con le statistiche epidemiologiche umane, da cui si evince che il problema "obesità", o comunque sovrappeso, affligge più i maschi delle femmine. Un'evidenza che però non implica necessariamente che fra gli umani la colpa dei chili in più sia dei pesticidi, in quanto la popolazione umana si espone, o viene esposta, a stili alimentari, di vita e a contaminazioni multiple che non hanno invece caratterizzato i roditori del test, tenuti isolati da ogni altra possibile forma di contaminazione e stimolo esterno.
 

Diabete e steatosi epatica

Durante la corposissima ricerca, fra i tanti parametri presi in esame sono stati monitorati anche i tassi glicemici delle cavie e la steatosi epatica. Nel primo caso sono state ravvisate in effetti delle oscillazioni glicemiche più marcate nei trattati rispetto ai non trattati. Le altalene di concentrazione mostrate dal glucosio, però, pare non trovino corrispondenza nelle variazioni di insulina: "No significant differences in insulin levels were observed in WT males (Figure S6A) or females (Figure S6B) fed pesticide chow compared to those fed control chow".

In altre parole - a parte che nemmeno queste due figure risultano accessibili dal documento (*) - non è corretto spacciare questa ricerca come una prova che i pesticidi inducono "diabete". Le minime alterazioni a livello di glicemia non hanno infatti causato differenze a livello insulinico.

La steatosi epatica è invece una patologia che si evidenzia nel fegato, chiamata anche fegato grasso. Si ravvisa ovviamente nelle persone in sovrappeso, in cui il fegato è sottoposto a un surplus di lavoro. Pure questo parametro è stato misurato nei due gruppi di roditori e, ancora, sembrano più i maschi soggetti a tali alterazioni, non le femmine. Nessun commento appare però possibile in assenza di effetti negativi sulla salute degli animali. La steatosi non implica infatti malessere di per sé.
 

Commenti

Diverse le osservazioni che possono essere sviluppate su questa ricerca, cui va riconosciuta per lo meno la corposità delle analisi sviluppate:

1) In primo luogo, la prova è stata condotta sì a concentrazioni uguali o leggermente inferiori all'Adi di ciascuna molecola, ma patisce di più forzature comunque. In primis, come detto, gli Adi sono necessariamente da calcolare su base singola. Quindi i livelli di sicurezza molecola per molecola non possono essere messi in discussione da questa ricerca. Semmai va considerata prima l'esposizione reale al multiresiduo, al fine di comprendere se quella prova abbia senso oppure no. L'Adi continua cioè a permanere riferimento valido e incontestabile nei sensi e negli ambiti per i quali è stato concepito.

2) La somministrazione continuativa per 52 settimane (un anno) simula l'esposizione umana per 30 anni. Nessun essere umano sarà mai esposto continuativamente a una specifica miscela di sei ben precisi "pesticidi", men che meno con dosi costantemente prossime ai rispettivi ADI. Ciò perché i residui sugli alimenti e nelle acque viaggiano su livelli dalle migliaia ai milioni di volte inferiori ai relativi Adi. Quindi, nella realtà quelle dosi non si verificano mai nemmeno lontanamente, soprattutto in un lasso temporale di 30 anni di vita umana.
Al contrario, nell'arco di tre decadi quello stesso essere umano può essere esposto, o esporsi volontariamente, a una miriade di fattori di rischio al confronto dei quali il multiresiduo diventa una pacca sulla spalla. Vuoi con l'alimentazione, vuoi con stili di vita sbagliati, come fumo, alcol e raggi UV per la tintarella.
E ancora, radon, polveri sottili, virus , batteri, farmaci, metalli pesanti, solventi, acidi e tutti quei fattori di pressione sanitaria legati alla vita moderna verso i quali non pare esservi particolare preoccupazione a livello mediatico, preferendo additare come mostri tentacolari pochi milligrammi di sostanze attive indispensabili per la produzione di cibo.
Basti pensare che in 30 anni di vita si può stimare vengano assorbiti pochi grammi di residui, mentre in un solo bicchiere di vino ci sono almeno 20 grammi di alcol, un "sicuramente cancerogno", tossicologicamente peggiore della stragrande maggioranza dei "pesticidi" attualmente utilizzati.

3) In diretta elaborazione del punto precedente: con la spesa si porta a casa circa un millesimo della media ponderata Edi/Adi, ovvero il rapporto fra Estimated daily intake e Acceptable daily intake. In tabella 1 si riportano i risultati dello studio svolto da Ivano Camoni dell'Istituto superiore di sanità, il quale ha calcolato molecola per molecola i singoli rapporti Edi/Adi, dimostrando che l'esposizione al multiresiduo è particolarmente bassa. Non foss'altro perché nel 60 e passa per cento dei cibi odierni non vi sarebbero residui rilevabili.  


Tab. 1: rapporti Edi/Adi, calcolati in base alle analisi residui ministeriali. Se già nel 2000 i dati risultavano ancor più rassicuranti rispetto al 1997, oggi lo dovrebbero essere ancor di più, grazie alla forte riduzione del profilo residuale negli alimenti occorsa in questi ultimi vent'anni
(Fonte foto: © Donatello Sandroni)

Dalle acque, peraltro, si può calcolare un'assunzione pari a circa un millesimo di quella derivante dal cibo. Quindi del tutto trascurabile.

4) L'assunzione con cibo e acqua è estremamente variabile nel tempo, sia per finestre di esposizione, sia per dosi, sia per tipologia di molecole. Quindi non si verifica mai la situazione per la quale sei molecole, sempre le stesse, vengono assunte dall'uomo, men che meno a quelle dosi. La continuità di esposizione è invece fondamentale per ottenere effetti di lungo periodo. Basta cioè che vi siano periodiche discontinuità di somministrazione e tutto salta per aria. Per quanto le molecole presenti in cibo e acque siano molte, ma molte di più delle sei viste in laboratorio, queste si alternano ampiamente nel tempo e nelle dosi. Ciò limita fortemente la probabilità che si ingenerino negli organismi degli effetti di tipo cronico come quelli evidenziati dalla ricerca. Vi è quindi da ritenere che se quello studio fosse ripetuto simulando le reali esposizioni cui va soggetto il consumatore medio umano, quei risultati non si osserverebbero affatto.

5) In tabella 2 si riportano quindi i dati di esposizione complessivi delle cavie nel corso delle 52 settimane di test, rapportando queste dosi a un uomo di 70 chilogrammi di peso.
 

Tab. 2: dosi somministrate ai topi, espresse poi per chilogrammo di peso corporeo e per assunzione annua, sia per le cavie, sia per l'uomo
(Fonte foto: © Donatello Sandroni)

Come si vede, l'assunzione delle sole sei molecole prese in esame supererebbe nell'uomo i tre grammi l'anno. Una cifra astrale, visto che l'assunzione reale di tutte le sostanze attive prese nel loro insieme può essere stimata in poche centinaia di milligrammi/anno, scendendo più probabilmente nel campo delle decine dopo lavaggio, sbucciatura e cottura. L'ammontare complessivo di tutte le sostanze cui l'uomo può essere esposto nel corso dell'anno si può quindi stimare stalli su livelli 15-20 volte inferiori a quelli delle sole sei molecole prese in esame nello studio francese. Valori che precipitano ulteriormente se si considerano appunto lavaggio, asciugatura, cottura e sbucciatura.

6) Il differente peso delle sei molecole: già a colpo d'occhio appaiono enormi differenze percentuali nella composizione del mix somministrato nello studio francese. Ziram, clorpirifos e thiacloprid rappresentano infatti il 4,8%, 6,3% e 7,5% del totale somministrato. Si sale al 22% per captano, al 27,4% per tiofanate e infine al 32% per boscalid, il quale rappresenta da solo circa un terzo di tutta la miscela somministrata. E pare davvero lunare pensare che in un solo anno un consumatore possa assumere oltre un grammo di boscalid con frutta e verdura. Peraltro, operando su sei molecole - somministrate a dosi così differenti e aventi per giunta meccanismi di escrezione e metabolismo diversi - non risulta corretto buttarli tutti nel medesimo calderone, attribuendo in modo salomonico a ciascuna di esse una parte equipollente degli effetti ravvisati. Impossibile infatti stabilire per ogni singolo effetto studiato quale delle sei molecole possa aver giocato poco, medio, tanto o per nulla.

7) Possibili mix alternativi: in banca dati Fitogest risultano censite 458 differenti sostanze attive. In pratica, si potrebbero comporre almeno 76 differenti gruppi di sei molecole per volta. Ma non basta: ogni molecola dovrebbe essere valutata in ogni possibile mix con ogni possibile altra molecola. Un lavoro che ben si comprende quanto sia impossibile svolgere. Inoltre, basterebbe che nel frattempo giungesse una nuova sostanza attiva e tutto dovrebbe essere rifatto da capo. Lascia quindi perplessi il fatto che l'intera fitoiatria venga messa oggi alla gogna su media e social in base a una ricerca svolta sull'1,3% dei suoi rappresentanti.

8) Manca qualcosa: a volte si deve andare oltre nella valutazione di ciò che è stato pubblicato, cercando di porsi domande su ciò che invece non risulta agli atti. Per esempio, le sei molecole in questione sono tutte di sintesi. Manca cioè almeno un rappresentante della fitoiatria ammessa in biologico. Eppure di sostanze attive utilizzabili in questi test ce ne sarebbero diverse. Possiedono infatti uno specifico Adi anche spinosad, i prodotti a base di rame, azadiractina e piretrine naturali. Tutti debitamente censiti nell'Eu pesticides database. Il rame, peraltro, quanto a tonnellate è uno dei più impiegati nella difesa delle colture. E questo in Francia ben lo sanno con tutta la viticoltura che hanno. Interessante sarebbe stato quindi vederlo incluso nel test al posto, per esempio, di un ben poco rappresentativo ziram. Oppure un'azadiractina al posto di un thiacloprid. Forse però, in tal caso, sui social di tale ricerca se ne troverebbe ben poca traccia, visto l'imbarazzo che avrebbe potuto creare proprio in chi, al contrario, oggi rilancia la notizia con grande enfasi.
 

Conclusioni

In estrema sintesi, analizzando i dati francesi si può solo rafforzare la convinzione che Efsa abbia ragione quando assicura che l'esposizione reale al multiresiduo non lede la sicurezza complessiva degli alimenti. Questo perché - e come al solito - vi sono differenze enormi fra ciò che accade nella vita reale e quanto avviene in un laboratorio, per quanto i lavori possano essere stati ben sviluppati. In sostanza, viene sempre omesso il particolare tutt'altro che secondario che ogni dato di laboratorio dovrebbe essere esportabile agli scenari reali. Cosa che quasi mai avviene, inclusa la ricerca appena esaminata.

Pertanto, strumentalizzare dei test su cavie, con tutte le forzature che normalmente portano con sé, per demonizzare la fitoiatria (e magari screditare Efsa), va guardata come pessima abitudine. Un'abitudine chemofobica alquanto "selettiva" che purtroppo trova invece crescenti spazi sui media e sui social.
 
(*) I grafici, posti nei supplementary matherials, sono stati verificati e confermano le affermazioni dei ricercatori

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