Dopo anni di primato produttivo italiano (in quantità), la Francia riconquista il gradino più alto del podio e torna leader nella classifica dei Paesi produttori di vino. I numeri, ancora lontani dall'essere definitivi, indicherebbero a una prima stima la Francia guidare il treno dei produttori di vino con 44-47 milioni di ettolitri, secondo il Ministero dell'Agricoltura francese, contro i 43 milioni di ettolitri che si andranno a raccogliere in Italia, con un calo del 14% rispetto ai 50 milioni della vendemmia 2022, strepitosa per volumi e qualità.

 

Su queste prime elaborazioni ci sarebbe già da sollevare qualche dubbio sull'esattezza dei dati. Capita, infatti, che le stime elaborate dalle cantine non siano sempre precisissime. Non tanto per errori voluti, ma per dinamiche lunghe da spiegare, ma tutt'altro che oscure. Le ha illustrate in maniera chiarissima in un lungo approfondimento al prestigioso sito WineNews il marchese Lamberto Frescobaldi, uno che di vendemmie ne può vantare per conto dinastico alcuni secoli, oltre ad esibire cinque grandi vini all'interno del listino Liv-ex.

 

Frescobaldi è, fra l'altro, il presidente dell'Unione Italiana Vini e, correttamente, pone l'accento anche su una riflessione che da diversi anni è al centro del derby fra Italia e Francia. Ovvero: ma che importanza ha detenere il primato produttivo in quantità, se poi quando si va a vendere il prodotto il valore medio delle bottiglie francesi è significativamente più elevato di quelle italiane? I vignaioli italiani e tutto il sistema del vino italiano non potrebbero lavorare per innalzare la qualità e, di pari passo, il prezzo?

 

Molto sinceramente: abbiamo bevuto nel corso dell'estate dei vini Trentodoc che nulla hanno da invidiare allo Champagne. E così vale - parere strettamente personale - per molti prodotti della Franciacorta e dell'Oltrepò Pavese. Eppure il prezzo strappato dalle maison francesi resta più elevato. Per non parlare di altre realtà Oltralpe, che riescono a farsi pagare molto ma molto di più rispetto ai vini prodotti in Italia.

 

Ancora, sul fronte della quantità: in Francia stanno sostenendo distillazione di crisi ed estirpo di vigneti in una zona prestigiosissima come quella del Bordeaux. Vale a dire: meno vino, ma alta qualità e prezzi di conseguenza.

 

Il tema è noto ed è superfluo soffermarsi oltre. Certo una domanda, se parliamo di elaborazione dei dati (Frescobaldi dixit: "I dati ci sono, ma allinearli non è un esercizio banale"), sorge spontanea: come fare per ottenere una stima produttiva più precisa e, magari, anche più precoce nei tempi? Poter conoscere i dati in anticipo e senza margini eccessivi di errore permetterebbe forse di poter pianificare con maggiore successo le politiche di marketing in Italia e, soprattutto all'estero? Gli strumenti digitali strutturati anche per fare ciò, connessi direttamente agli organi istituzionali e riconosciuti per il rilevamento e l'elaborazione dei dati, potrebbero essere un valido aiuto? Lascio agli operatori la risposta sulla necessità di poter raccogliere dati in maniera più rapida e precisa, servendosi delle tecnologie digitali esistenti (o eventualmente elaborate appositamente).

 

Di certo l'ipotizzato calo produttivo spinge a fare altre riflessioni, legate comunque alla collocazione delle giacenze, piuttosto alte, che appesantirebbero le cantine, e su come gestirle. Se appare da escludersi categoricamente l'ipotesi di una vendita sottocosto del vino, per non svilire gli sforzi fino a qui compiuti per rilanciare il prestigio dell'Italian wine, bisognerà lavorare per rafforzare i mercati già esistenti e individuarne di nuovi. Quali?

 

Domanda complessa, perché il mondo, fra covid-19, nuova globalizzazione, inflazione, recessione e spettro salutista - furore quest'ultimo che tende a demonizzare il vino come bevanda nociva per la salute, commettendo un errore madornale (sono pericolosi gli abusi, non il consumo consapevole e moderato a pasto) - il mercato del vino appare se non del tutto insondabile, quanto meno difficile da tratteggiare nelle sue evoluzioni future.

 

Il boom delle importazioni cinesi si è fermato tempo fa e il rallentamento dell'economia di certo non facilita quelli che possono essere consumi voluttuari come il vino. Bisognerà vedere se la frenata di Pechino sarà temporanea o se le dinamiche di ripresa saranno più tortuose. La crisi immobiliare invita il Politburo del Dragone alla prudenza e a non spingere l'acceleratore su grandi opere infrastrutturali, perché il rischio di un flop potrebbe essere quanto mai reale.

 

Inoltre, la situazione cinese va vista anche in chiave più complessiva, se ragioniamo di vino e non possiamo trascurare il fatto che oggi l'ex Celeste Impero sta producendo autonomamente, sta crescendo notevolmente in termini di qualità, di cultura e di innovazione. Nelle aree più vocate la digitalizzazione nel vigneto e in cantina sta prendendo piede. Quale spazio ci sarà per i vini italiani, in futuro? In attesa di conoscere la risposta, è assolutamente legittimo proseguire negli sforzi di evangelizzazione dei vini italiani, che hanno dalla loro una notevole biodiversità, tutta da raccontare con 635 varietà iscritte al Registro Viti, il doppio rispetto ai francesi, con 332 vini a Denominazione di Origine Controllata (Doc), 76 vini a Denominazione di Origine Controllata e Garantita (Docg) e 118 a Indicazione Geografica Tipica (Igt) (Fonte: Coldiretti).

 

La missione dunque di Vinitaly, con tappe e tour promozionali all'estero, grazie a un brand conosciuto in tutto il mondo, è perfettamente centrata.

 

Oggettivamente si sta consumando meno vino. I Millennials e la Generazione Z, ad esempio, sembrano meno attratti dal vino rispetto alle generazioni precedenti. Così, negli Stati Uniti il consumo di vino è precipitato a 10,8 litri pro capite, la cifra più bassa dal 2015, riporta WineNews. E gli Usa non sono certo un mercato secondario per il vino italiano.

 

Per non parlare di gusti che cambiano. Lo splendore dei vini barricati è meno scintillante, resiste in Usa e in Gran Bretagna, ma i consumatori cercano anche vini più leggeri, freschi. Per non parlare del fattore prezzo, che se paradossalmente in linea teorica può rappresentare un limite - gli acquirenti con l'inflazione non sono più disposti a spendere cifre che oggi considerano elevate - allo stesso tempo potrebbe aprire il mercato ad altre tipologie di vino.

 

C'è poi da chiedersi i motivi della preconizzata vendemmia meno florida: i cambiamenti climatici e alcune patologie come peronospora e flavescenza dorata, che quest'anno hanno creato non poche difficoltà. Per non parlare dell'alluvione in Romagna, che ha messo in ginocchio l'agricoltura e la zootecnia, viticoltura compresa. Come affrontare tali problemi? Di sicuro non basteranno i vitigni resistenti, sui quali è opportuno comunque continuare gli studi, perché il climate change significa anche aumento delle temperature, con conseguente aumento del tenore zuccherino delle uve. Ma significa anche grandine, che è oggettivamente più difficile da contrastare, anche se l'esempio francese di dotarsi di pannelli agrovoltaici sopra la coltura, così da proteggerla in caso di tempesta, va preso in debita considerazione.

 

Sintetizzando con una parola di speranza. Se mangiare è un atto agricolo, come recitava lo scrittore ambientalista Wendell Berry, bere è un atto intellettuale, come ha scritto nei giorni scorsi Alessandro Trocino, giornalista del Corriere della Sera e sommelier, parlando della moda - relativa - dei vini ossidati. C'è spazio per tutti. Il made in Italy parte da ottime basi e da un'autorevolezza che si è conquistato con anni di sacrificio e di visione enologica. Conquistiamo nuovi mercati, con pazienza e, magari, coinvolgendo diversi settori dell'agroalimentare italiano, spingendo per azioni congiunte. L'export si fa insieme, da soli è molto più difficile.