"Abbiamo due domande. Come può l'Africa creare posti di lavoro, e che funzione ha in questo senso l'agricoltura? In che modo può contribuire l'Europa a questa missione?". Sono questi i quesiti, posti da Tom Arnold, presidente della Task force per l'Africa rurale (Tfra), da cui è scaturito il dibattito sul futuro del continente in occasione dell'ultima sessione del Consiglio dell'Unione europea dello scorso 19 novembre.

A offrire la soluzione su un piatto d'argento è lo stesso Arnold, le cui dichiarazioni, rilanciate su Twitter, tracciano una strategia molto definita: "La principale sfida politica per i leader africani è la creazione di posti di lavoro. I settori rurale e dell'agrifood dovrebbero svolgere un ruolo importante in tal senso".

In effetti, negli ultimi anni le relazioni tra Ue e Africa hanno acquisito sempre maggiore importanza. Il risultato del quinto vertice Africa-Ue nel novembre del 2017 e la dichiarazione congiunta che guiderà la cooperazione tra i due partner fino al 2020 ha riconosciuto che proprio il fronte dell'agricoltura sarà fondamentale per costruire insieme un futuro sostenibile. Anche per questo motivo, nell'aprile di quest'anno, la direzione generale dell'Agricoltura e dello sviluppo rurale della Commissione europea, in cooperazione con la direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo, ha istituito la Task force, per fornire raccomandazioni su come rafforzare il settore rurale africano e ottimizzare il ruolo dell'Ue nella creazione di posti di lavoro e nello sviluppo economico, anche attraverso l'uso della digitalizzazione.

Ma la strategia di Tom Arnold, illustrata durante l'ultimo Consiglio, è davvero percorribile?

Secondo il ministro tedesco dell'Agricoltura, Julia Kloeckner, non proprio. In un'intervista al quotidiano Hannoversche Allgemeine Zeitung, il ministro sottolinea la necessità di aiutare l'Africa partendo certamente dall'agricoltura, ma vede ancora poco interesse in questo senso da parte delle aziende tedesche. "Due terzi della popolazione africana sono agricoltori - spiega Kloeckner -. Un'agricoltura moderna, sostenibile e redditizia può certamente contribuire in modo significativo alla riduzione della disoccupazione, e offrire delle prospettive, soprattutto ai più giovani. Purtroppo, però, le aziende tedesche sono ancora poco interessate al mercato africano. Gli investimenti sono spesso soggetti a gravi rischi. Uno dei principali problemi è la frequente mancanza di certezza del diritto; inoltre, c'è una grande carenza di personale qualificato".

Ma c'è anche chi, fuori dall'Europa, è meno scettico. Il ministero per l'Agricoltura e le risorse forestali della Turchia nelle scorse settimane ha sottoscritto con il Sudan un accordo da 100 milioni di dollari in materia di esplorazione petrolifera e un'intesa che prevede l'assegnazione di migliaia di miglia quadrate di terra agricola sudanese per investimenti da parte di aziende private turche. Non solo. La Turchia, che ha messo a dura prova i rapporti con alcune potenze regionali come l'Egitto e l'Arabia Saudita, ha recentemente potenziato gli investimenti in Sudan. Ad esempio, prevede di ricostruire una città portuale ottomana in rovina sulla costa sudanese del Mar Rosso, e di procedere alla realizzazione di un molo navale per la manutenzione di imbarcazioni civili e militari.

Che la chiave di volta stia allora proprio lì, in Africa? "Il governo è il partner più importante - afferma Boaz Keizire, dell'Alliance for a Green Revolution in Africa, un think tank con sede in Kenya - ma in Africa è anche l'anello più debole". A indagare questa dinamica distorta è stato di recente il settimanale londinese The Economist: in teoria i governi dovrebbero investire in beni pubblici, come la ricerca e le strade, e regolare i mercati in modo non invasivo ed equo. In Africa però troppo spesso falliscono in queste funzioni fondamentali. Il Malawi, ad esempio, che è in cima alle classifiche di spesa pubblica, assegna sistematicamente oltre il 15% del suo budget all'agricoltura, ma gran parte viene inghiottito in un costoso sistema di sussidi per sementi e fertilizzanti. In Etiopia, invece, le sovvenzioni sono relativamente basse, sostituite da investimenti in ricerca, infrastrutture e formazione; eppure non è un modello da emulare: si è infatti instaurato qui un sistema oppressivo di controllo statale che funziona bene in alcuni punti mentre fallisce clamorosamente in altri.

"Nel complesso, la governance in Africa è migliorata. E dati migliori possono responsabilizzare maggiormente i governi - afferma Shenggen Fan, capo dell'International food policy research institute, un think tank di Washington. - Ma è difficile sradicare le buone pratiche da un contesto e ripiantarle in un altro. La politica agricola, come la stessa agricoltura, è una questione complessa. Ha bisogno del terreno giusto e di un'attenta gestione per prosperare".

Il lavoro della Task force per l'Africa rurale appare dunque sin d'ora complesso e scandito, più che da questioni agricole, dai rigurgiti autoritari e pseudo-democratici di certi stati africani.