Le imprese agroalimentari italiane, complice la crisi, stanno guardando sempre più all'estero. Il nostro paese nel 2017 ha esportato beni per 40 miliardi di euro (due terzi in Europa e il 14% negli Usa) e ha segnato una crescita del 7% rispetto all'anno precedente. Tirano i formaggi (+11%), il vino (+6%), la cioccolata (+20%) e i prodotti da forno (+12%). Bene, ma non benissimo, perché l'Italia resta quinta in Europa nel valore dell'export con l'Olanda che incassa 86,8 miliardi, la Germania 76, la Francia 60,5 e la Spagna 47,7.

Di come aiutare le imprese italiane a conquistare i mercati esteri si è parlato durante un convegno dal titolo 'L'agroalimentare italiano alla prova dell'internazionalizzazione' che si è tenuto a Bologna, organizzato dallo studio legale LS Lexjus Sinacta, attivo nell'affiancare le imprese nostrane che vogliono avventurarsi fuori dai confini italiani, ma soprattutto europei.

In apertura del convegno i dati di Nomisma. "Per conquistare i mercati esteri serve un marchio forte, come quello del made in Italy, ma anche competenze specifiche e dimensioni di scala", spiega Denis Pantini, responsabile dell'area agroalimentare di Nomisma. "Basti pensare che in Italia solo l'1,7% delle imprese agroalimentari ha più di 50 addetti, contro il 10,5% della Germania".

I consumi nel settore crescono a livello globale (nei prossimi cinque anni del 24% negli Usa, del 44% in Cina e dell'85% in India) e per le imprese italiane si aprono nuovi mercati, su cui tuttavia è difficile entrare. Certo, nell'ultimo decennio il nostro export è cresciuto del 229% verso il Medio Oriente, del 197% in Asia centrale, del 163% in Asia Orientale e del 123% nei paesi del Centro-Sud America. Ma c'è ancora moltissimo da fare.

Grafico trend export agroalimentare

Dimensione e organizzazione, sono due dei problemi che rallentano le nostre imprese. Ma anche i dazi e le barriere non tariffarie rendono poco competitivi i nostri prodotti all'estero. In questo quadro l'Unione europea ha stipulato accordi di libero scambio con Canada e Giappone che rappresentano un'ottima opportunità. Basti pensare al boom delle vendite di prosciutto (+42%), in gran parte proveniente da Parma, registrato al di là dell'Atlantico.

Un altro esempio è quello del vino in Cina, dove cileni e australiani stanno espandendo le loro vendite (+2,5% e +12% rispettivamente) a scapito della Francia (-10%) grazie all'accordo di libero scambio stipulato tra Pechino e i due paesi del Pacifico. A spaventare le imprese esportatrici italiane sono Donald Trump e la Brexit. Il presidente Usa sta dando il via ad una guerra commerciale che potrebbe penalizzare le nostre imprese, mentre l'uscita di Londra (terzo paese importatore di made in Italy) dall'Ue potrebbe resuscitare dazi e barriere di vario genere sulla Manica.

"L'Emilia Romagna e l'Italia devono puntare su produzioni ad alto valore aggiunto, in primis Dop e Igp, ma anche sul biologico, per vincere la sfida dell'export", ha dichiarato Simona Caselli, assessore all'Agricoltura della Regione Emilia Romagna. "Quello che dobbiamo cercare di fare è incentivare una maggiore aggregazione dei produttori, come avviene oggi in Spagna".
 
Incidenza % dell'export agroalimentare italiano per area

Certo, esportare fuori dall'Europa non è semplice, soprattutto quando si ha a che fare con giganti del calibro di Walmart che impongono contratti tutti a vantaggio dell'importatore e con decine e decine di clausole. O quando ad importare è una società russa o cinese, con contratti scritti nelle lingue madri. "Bisogna valutare attentamente le clausole e cercare di contrattare con l'acquirente", ha spiegato Claudio Perrella dello Studio Legale LS Lexjus Sinacta. "Clausole tipiche sono quelle che riguardano i ritardi, il diritto di ispezione o di richiamo, con relativo obbligo di assicurazione in caso di contaminazioni. Senza contare che ormai la clausola Brexit è presente in tutti i contratti".

Durante una tavola rotonda tra Ioanna Stavropoulou (Granarolo Spa), Massimiliano Montalti (Assologistica), Andrea Villani (Ager) e Damiano Frosi (Politecnico di Milano) si è discusso dei problemi che i vari attori della filiera agroalimentare devono affrontare nella sfida dell'export. Dalla logistica alle abitudini di consumo di popoli lontani, dall'italian sounding all'avvento delle nuove tecnologie (il 20% del cibo si acquista online in Corea del Sud, ad esempio).

E di tecnologia ha parlato Filippo Briguglio, direttore del master universitario in Law and food safety dell'Università di Bologna. "La robotica, l'intelligenza artificiale, l'Iot e i big data stanno rivoluzionando il mondo dell'agroalimentare dal campo alla tavola e le aziende che non se ne accorgono rischiano di essere spazzate via come è successo a Blockbuster o a Nokia in settori diversi". Secondo Briguglio i consumatori vogliono cibi sicuri e autentici e la tecnologia può creare quella fiducia che serve per far crescere il mercato.