Per le nutrie la situazione è diversa. Il loro proliferare è in parte dovuto all'abbandono di questi animali, che si volevano allevare per la pelliccia, e alla contemporanea assenza di predatori naturali.
Il risultato di queste campagne è stato eccellente. Di lupi, cinghiali e nutrie ve ne è a sufficienza. Anzi, persino troppi. A farne le spese sono gli agricoltori e i pastori.
I primi sono costretti a fare i conti con le colture devastate dalla visita dei cinghiali, che nella ricerca di cibo “arano” con le loro zanne il terreno. Per i pastori la presenza del lupo si traduce in pecore e agnelli sbranati.
Con le nutrie i danni si allargano agli argini di fiumi e fossi la cui stabilità è messa in pericolo dalle gallerie che questi animali scavano per ricavarne la propria tana.
Alla ricerca di un equilibrio
Questi problemi innescano un difficile confronto fra chi è danneggiato e chi insegue, con encomiabili finalità, il desiderio di tutelare ambiente e animali.Raggiungere un punto di equilibrio non è cosa semplice. Si vorrebbe tutelare il lupo, ma bisognerebbe anche pensare alle atroci sofferenze che pecore e agnelli, e non solo loro, devono sopportare fra le fauci di un lupo prima che sopraggiunga la morte.
Non è poi tanto diversa la situazione per i cinghiali, specie nelle aree a parco, dove il contenimento degli animali con la caccia non è ammesso. Nè si può pensare a misure di protezione inattuabili su vaste aree, come recinti elettrificati o altro.
Forse programmi di sterilizzazione dei maschi potrebbero portare a qualche risultato. Il costo è però esorbitante e chissà se troverebbe tutti d'accordo.
Peste suina in agguato
Che qualcosa sia necessario fare è fuori discussione, in particolare per i cinghiali. Si pensa ad essi per i danni ai campi o per le scorribande nelle periferie delle città, oppure per gli incidenti che possono provocare. Ma c'è un pericolo maggiore, più subdolo e ben più pericoloso. E' la peste suina africana, malattia virale che da decenni è confinata alla sola Sardegna, almeno per quanto riguarda l'Italia.Il cinghiale è uno dei principali serbatoi di sopravvivenza del virus e la presenza di un elevato numero di cinghiali in Italia non può lasciarci tranquilli.
Per di più non è vano ricordare che tutte le grandi “pestilenze” del passato sono giunte da est e guarda caso sono proprio i paesi dell'est Europa che oggi destano le maggiori preoccupazioni sul fronte della peste suina africana. Inutile ricordare che non esiste cura e nemmeno un vaccino che la fronteggi.
Il pericolo viene da est
Proprio in questi giorni la Commissione europea ha aggiornato le misure di protezione contro la peste suina africana. Le nazioni soggette alle misure di restrizione sono l'Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia e anche l'Italia, limitatamente alla Sardegna.Tutte le misure sono tese a eradicare la malattia, confinando nel frattempo il virus entro queste zone, con severi controlli sugli allevamenti e sugli spostamenti degli animali. Un compito difficile, ma non impossibile. Più complicato è tenere sotto controllo gli animali selvatici, come il cinghiale. E più ce ne sono, più aumentano i rischi.
Conseguenze disastrose
Cosa accadrebbe se malauguratamente il virus della peste suina africana dovesse incontrare uno dei nostri cinghiali? O, peggio, arrivare in un allevamento? Oltre all'abbattimento di tutti gli animali, si avrebbe il blocco di ogni attività suinicola, dagli animali ai loro prodotti.Non si potrebbe più esportare né carne né insaccati o salumi, come prosciutti, mortadelle o salamini e pancette.
Nel 2016, si legge nei report di Assica, l'associazione delle industrie di trasformazione, l'export di questo settore ha raggiunto un valore di 1,4 miliardi di euro, con una crescita del 4,8%. Tutto questo andrebbe perso, decretando la chiusura di allevamenti e salumifici, mettendo sul lastrico migliaia di famiglie senza più lavoro. Ma avremmo salvato la vita di qualche cinghiale. Non c'è equilibrio fra costi e benefici. Va trovata una soluzione. Magari di buon senso.