Rieccola l'influenza aviare, ma questa volta senza il corredo di inutili allarmismi. Perché ad essere preoccupati devono essere solo gli allevatori, per i danni arrecati ai loro allevamenti, e non i consumatori. Il virus che ha fatto la sua comparsa in alcuni allevamenti dell'Emilia Romagna è del ceppo H7N7, purtroppo fra i più virulenti. Nulla a che vedere con il ceppo H5N7 che nel 2006 ha gettato nel panico milioni di consumatori di carni avicole e di uova, convinti da una cattiva informazione che il virus potesse passare dai polli all'uomo come nulla fosse. Potevano stare tranquilli allora e ancor più oggi. Il costo che però il settore avicolo deve sopportare è enorme. Nei quattro allevamenti coinvolti (nelle province di Ferrara e Bologna) il numero di animali abbattuti assomma a oltre 850mila capi. Al danno immediato si aggiunge il blocco delle movimentazioni di animali e uova che coinvolge gli allevamenti in un raggio di molti chilometri. E poi le mille complicazioni, però indispensabili, nella gestione delle deiezioni (la pollina), nell'approvvigionamento dei mezzi di produzione, nella circolazione dei mezzi e del personale. Tutte misure indispensabili per prevenire che il virus dell'influenza possa espandere il suo raggio di azione. Un pericolo tutt'altro che remoto, tanto che le autorità sanitarie hanno reso ancor più stringenti i già rigidi protocolli di intervento previsti in questi casi, stabilendo (dispositivo dirigenziale del 21 agosto) che tutta la produzione avicola dell'Emilia Romagna debba rimanere confinata entro i limiti regionali sino a quando la situazione non tornerà sotto controllo. Già il 28 agosto la vicepresidente della Regione, Simonetta Saliera, ha chiesto che questi vincoli vengano però superati grazie al piano straordinario di controllo già attuato su tutti gli allevamenti dell'Emilia Romagna. Merito in gran parte dell'ottimo lavoro dei servizi veterinari regionali, guidati da Gabriele Squintani.
Una “vecchia” conoscenza
Conosciuta sin dal 1878 per la sua carica devastante, tanto da essere battezzata allora “peste aviaria”, il virus che ne è responsabile può presentarsi in una forma ad alta patogenicità, come nei recenti episodi, o in una forma a bassa patogenicità, ma non per questo meno pericolosa. Casi di quest'ultima categoria si sono verificati anche negli ultimi anni, prontamente messi sotto controllo dalle autorità sanitarie. Per trovare un'epidemia di influenza aviare ad alta patogenicità in Italia bisogna andare indietro di oltre dieci anni, tra il 1999 e il 2000, quando si verificarono numerosi casi con conseguenze gravissime per gli allevamenti. Ma quella volta gli episodi di malattia passarono quasi sotto silenzio per l'opinione pubblica. Cosa succedeva negli allevamenti di polli era cosa da “addetti ai lavori”, come spesso accade per gli avvenimenti che riguardano il settore agricolo. Poi nel 2005 l'influenza aviare ha fatto la sua comparsa in Cina e si sparse il timore che il virus, capace di grandi modifiche, fosse in grado di colpire anche l'uomo. E fu subito allarme mediatico, con giornali e televisioni che facevano a gara a chi descriveva con i toni più cupi l'imminente e inevitabile ecatombe. Poi non successe nulla, salvo azzerare i consumi di carni avicole e uova, con danni milionari per l'intero settore.
Danni economici
Ora l'influenza aviare l'abbiamo in casa, ma nessuno si sogna di mettere in dubbio l'assenza di pericoli per l'uomo. Tanto più che il ceppo virale in causa, come ben spiegato dall'Istituto Zooprofilattico delle Venezie, che dell'influenza aviare è centro di referenza, è uno di quelli “classici”, l'H7N7 che insieme al sottotipo H5 è fra quelli capace di causare la malattia nella sua versione ad “alta patogenicità”, con una mortalità negli animali che può arrivare al 100%. A favorire la diffusione della malattia è la grande facilità di trasmissione del virus che può passare da un animale all'altro anche per via aerea e non solo per contatto. Qualsiasi materiale contaminato dalle feci degli animali malati, come mangime, acqua, attrezzature, personale, mezzi di trasporto e persino insetti, possono essere veicolo del virus. E il pericolo può arrivare da dove meno te lo aspetti, come alcune specie di uccelli selvatici che rappresentano il serbatoio naturale di questo virus. Difendersi è dunque difficile e impone agli allevamenti il rispetto di rigide regole di igiene e prevenzione. Regole rispettate con scrupolo da tutti, come dimostra l'assenza per tanti anni della malattia dagli allevamenti italiani. Ma per quanto strette, le maglie della rete di prevenzione possono lasciare aperto qualche varco del quale il virus può approfittare. Ecco perché la “battaglia” impone misure draconiane come quelle attuate con l'abbattimento di tutti gli animali, anche quelli sani, ma a rischio di infezione. Il danno è enorme, secondo alcune stime assomma a ben 180 milioni di euro. Con la speranza che l'Unione Europea possa indennizzarne almeno una parte. Per il momento non resta che accontentarsi degli elogi che Bruxelles ha indirizzato ai nostri servizi veterinari per l'ottimo lavoro di contenimento del virus.