Vengono di concerto messi in discussione anche i moderni criteri di lotta integrata, ritenuta fallimentare nonostante grazie ad essa si sia riusciti a ridurre significativamente i quantitativi per ettaro. Accuse quindi del tutto immeritate, atte come al solito a trasferire sfiducia nei confronti dell'agricoltura moderna, basata anche, ma non solo, sulla chimica.
Molto di ciò trae origine dal confronto fra due semplici numeri: in Italia si applicherebbero mediamente 5,7 chilogrammi di sostanze attive per ettaro contro una media europea di 3,8 chilogrammi. Alcune statistiche ci collocherebbero al terzo posto in Europa, altre al quarto. Abbastanza emblematico che la piccola isola di Malta sarebbe in vetta a tali classifiche. E già questo dovrebbe fare meditare attentamente.
La soluzione? Per molti sarebbe la conversione al biologico, indicato sempre più come mezzo per diminuire i chilogrammi utilizzati per ettaro. Ma le cose, come al solito, non stanno affatto come vengono presentate. In primis perché vi sono ragioni tecniche alla base dei numeri su esposti. In secondo luogo, se si dovesse sposare il bio a 360° le cose potrebbero addirittura peggiorare, come si vedrà nei prossimi paragrafi, nei quali si analizzeranno i carichi ambientali di "pesticidi" relativi a due colture caratteristiche dello Stivale, ma molto diverse dal punto di vista della difesa fitosanitaria, ovvero la viticoltura e la cerealicoltura, rappresentativa quest'ultima anche dei Paesi Ue che concorrono in tal modo a mantenere bassa la media continentale di chili per ettaro rispetto alla nostra.
Vite: chilogrammi con sorpresa
La coltura della vite è stata selezionata in quanto emblematica per gli usi di agrofarmaci. Insieme a frutticoltura e orticoltura, la viticoltura è quella che maggiormente necessita di trattamenti fitosanitari a causa delle molteplici avversità che l'affliggono e della lunghezza del ciclo colturale. Bene quindi analizzare la composizione di questi trattamenti in modo da comprendere se i carichi ambientali sono troppi oppure ragionevoli. Come pure serve per comprendere quali prodotti vengano utilizzati per la maggiore, trovando qualche sorpresa. Non certo per i tecnici, che queste cose le sanno benissimo, bensì per i cittadini. Ovvero quelli perennemente martellati col tormentone che gli agricoltori italiani sono troppo allegri nel trattare le proprie colture.Consultando i dati Istat per l'anno 2016, infatti, emergerebbero numeri interessanti. La superficie vitata di base trattata con agrofarmaci ammonterebbe a 644.583 ettari, ovvero il 98,8% del totale vitato italiano. Alcune vigne sono di fatto abbandonate, creando peraltro problemi di continui inoculi di parassiti come avviene per lo Scafoideo, vettore della Flavescenza dorata.
La superficie cumulata trattata, cioè il numero degli ettari trattati per il numero di volte che hanno ricevuto un trattamento, ammonterebbe invece a 8.759.359 ettari. In sostanza, le medesime superfici sono state trattate per un numero medio di volte pari a circa 13,6. Quando va bene si può stare sotto i dieci, quando va male si sfiorano i venti. Dipende dal meteo, quindi non sono né pochi, né troppi: sono semplicemente quelli che servono a seconda dell'anno.
In totale, continuando la lettura dei dati Istat, i fungicidi rappresentano il 97,53% del totale dei prodotti applicati, con 15.639.691 di chilogrammi su 16.036.094 complessivi.
Insetticidi/acaricidi ammonterebbero infatti a soli 171.522 chilogrammi, pari all'1,07%, mentre gli erbicidi rappresenterebbero l'1,2% con 192.416 chilogrammi complessivi. Di questo valore, il solo glifosate apporterebbe l'83% per un totale di 167.730 ettari trattati, cioè il 26% della superficie a vite trattata.
Traducendo il dato in altra guisa, nel 2016 sarebbero stati quindi trattati con glifosate 267.241 ettari cumulati, pari a circa il 3% di tutta la superficie, anch'essa cumulata, sottoposta a trattamenti fitosanitari. In termini di carichi ambientali, glifosate rappresenta invece solo l'1% del totale impiegato ogni anno in viticoltura. L'uno per cento. Forse esprimendo il valore come testo si comprende meglio l'esiguità degli apporti di glifosate nelle vigne italiane.
Appurato quindi che le famiglie degli insetticidi/acaricidi e degli erbicidi, glifosate incluso, influiscono dal poco al nulla sui carichi ambientali dovuti alla viticoltura, sarà bene focalizzare sui soli fungicidi.
I due raggruppamenti che caricano maggiormente le vigne risulterebbero gli inorganici a base di zolfo e gli inorganici a base di rame. I primi ammonterebbero infatti a 11.053.873 chilogrammi, i secondi a 1.703.406 chilogrammi, pari rispettivamente al 68,93 e al 10,62% degli agrofarmaci impiegati nei vigneti del Belpaese. Di conseguenza, circa un chilo dei summenzionati 5,7 sarebbe rappresentato dai soli zolfo e rame impiegati in viticoltura.
Ciò non deve stupire, visto che il 79,55% dei "pesticidi" impiegati in viticoltura in Italia è rappresentata da zolfo e rame, pilastri soprattutto della viticoltura biologica, pari questa nel 2016 a circa 103.500 ettari, ovvero il 16% circa del totale in produzione. Giusto per fornire un termine di paragone, per ogni chilogrammo di glifosate, nel 2016 sarebbero stati impiegati 69 chilogrammi di zolfo e 10,7 chili di sali di rame.
In sostanza, i quattro quinti dei carichi ambientali nei vigneti sono dovuti a due soli raggruppamenti di prodotti i cui rappresentanti sono peraltro i più attempati del panorama fitoiatrico, essendo lo zolfo conosciuto fin dai tempi dell'antica Grecia e il rame dalla fine del XIX secolo. Sarà bene notare poi come il biologico sia quasi esclusivamente basato su tali prodotti, quindi, se l'intera viticoltura nazionale dovesse convertirsi al bio non potrebbero che esplodere i summenzionati carichi ambientali di tali raggruppamenti fitosanitari, già oggi alquanto corposi. A dimostrazione che la via per l'inferno è lastricata di buone intenzioni.
Vedendo poi la cosa da un altro punto di osservazione, si potrebbe anche affermare che nonostante la viticoltura bio sia stata contabilizzata nel 2016 pari al 16% del totale, l'80% della viticoltura nazionale sarebbe stata trattata con prodotti "bio". A dimostrazione che gli attacchi alle molecole di sintesi, spesso migliori di quelle naturali, riguardano solo il 20% di tutti i prodotti impiegati in vigna. Un dato su cui meditare, visto l'allarmismo mediatico battente di cui la viticoltura specializzata viene fatta oggetto.
Al fine di ridurre i chili per ettaro, cioè, sarebbe bene sviluppare sempre più fungicidi di sintesi altamente specifici e selettivi, riducendo in tal modo sia il numero dei trattamenti per anno, sia le quantità assolute impiegate. Quando poi si accetteranno le varietà gm resistenti alle patologie, cioè quelle biotech, sarà sempre tardi. E la cosa più assurda è che coloro i quali si oppongono ad esse sono spesso gli stessi che accusano l'agricoltura di usare troppi "pesticidi". Altro punto su cui iniziare a porsi serie domande in tema di coerenza e di onestà intellettuale.
Vigna contro grano
Come termine di paragone con la viticoltura è stato scelto il grano duro, altro simbolo dell'agricoltura italiana, ma largamente presente col suo "fratello" tenero nei Paesi del centro e del nord Europa. Basti pensare che nel 2016 la Francia ne seminò oltre sette milioni di ettari. Nel 2015 in Inghilterra, a fronte di una superficie agricola totale di 8,9 milioni di ettari (l'Italia ne ha 12 circa), a pascolo ne risultavano 3,7 milioni, contro 4,8 milioni di ettari effettivamente coltivati. Di questi l'84%, venne seminata a cereali o semi oleosi.Giusto per fare un paragone, in Italia nel 2017, sempre secondo l'Istat, sarebbero stati seminati a grano circa 1,8 milioni di ettari, di cui 1,3 a grano duro e 500 mila ettari a tenero. In sostanza a grano si semina in Italia circa il 15% della superficie complessiva, contro il 27% circa della Francia. Ovvero quasi il doppio. Circa l'Inghilterra è poi gioco futile calcolare qualsivoglia percentuale, perché è abbastanza intuitivo che un'agricoltura basata su pascoli, cereali e oleaginose abbia un impiego di agrofarmaci decisamente scarso, ma non certo per bravura degli agricoltori britannici, bensì perché sono proprio questi indirizzi colturali a richiedere quantitativi estremamente modesti di prodotti fitosanitari.
Chiarite le differenze fra Italia e altre potenze agricole europee, torniamo ora alla comparazione vite-frumento duro per come era stata impostata sull'anno 2016, pari a 680.423 ettari trattati, corrispondenti a 2.798.477 ettari cumulati. In sostanza, un ettaro di grano duro riceverebbe 4,11 trattamenti l'anno, spesso in forma di miscele con più sostanze attive insieme: il numero di applicazioni in campo è infatti di solito pari a due, effettuate però con più molecole per volta.
In viticoltura si applica cioè 3,3 volte di più rispetto a quanto avviene per il grano duro, ma questo solo in termini di molecole applicate per anno. Parlando di chilogrammi la differenza è molto più ampia. Le quantità complessive impiegate su grano duro ammonterebbero infatti a 376.116 chilogrammi, pari cioè al 2,24% di quanto impiegato in viticoltura. Esprimendo il tutto per ettaro, si evince come in viticoltura vengano impiegati circa 25 chilogrammi l'anno, di cui 20 sono zolfo e rame, mentre in cerealicoltura tale cifra calerebbe a soli 0,55 chilogrammi.
In sostanza, un ettaro di vite riceve circa 42 volte tanti i chili di prodotti fitosanitari di un ettaro di frumento duro. Ciò spiega quindi come mai la media italiana di prodotti fitosanitari per ettaro sia superiore alla media europea, basata fondamentalmente su seminativi come appunto i cereali, o sulle oleaginose, mentre quella italiana si fonda soprattutto su viticoltura, frutticoltura e orticoltura. Tutti indirizzi colturali che, come detto sopra, richiedono molteplici applicazioni l'anno, altrimenti non si raccoglie.
In conclusione, se si volesse davvero far dimagrire quel numero di 5,7 chilogrammi per ettaro, si dovrebbero ridurre soprattutto i trattamenti con zolfo e rame. Prodotti però utilissimi in viticoltura e per giunta economici. Senza pensare poi che rappresentano ottimi strumenti anche in una logica di lotta alle resistenze. Quindi appare alquanto difficile scappare da quel numero che tanto torna utile agli allarmisti di professione, soprattutto sapendo che buona parte di tale numero è rappresentato appunto da due sostanze attive ben viste da ambientalisti e biologici stessi. Considerando però le loro dosi di impiego, se questi prodotti sostituissero completamente le sostanze attive di sintesi i carichi complessivi non potrebbero far altro che aumentare. L'efficacia fitosanitaria a fine anno, invece, si teme proprio di no. In sostanza, con ogni probabilità si otterrebbe di peggio, trattando di più. Cioè il contrario di quanto reclamano proprio i contestatori dell'agrochimica.