L'olivicoltura italiana è in un guado. Da un lato infatti i consumi di olio a livello mondiale sono in aumento, dall'altro però la produzione nazionale è in contrazione e rappresenta solo una frazione dell'olio prodotto in Spagna. Le cause del declino sono varie: i cambiamenti climatici, la vecchiaia degli impianti, che spesso sono poco produttivi, la frammentazione delle aziende olivicole e la loro incapacità di rinnovarsi. Ma il nodo centrale è il modello economico non più sostenibile: produrre olio con impianti intensivi costa troppo e anche se il prodotto finito è eccellente, il mercato non è disposto a remunerarlo adeguatamente.
E allora? Tra le strade che alcune aziende italiane hanno intrapreso c'è l'olivicoltura superintensiva. Un modello nato e ormai affermatosi in Spagna, che sta spopolando anche nel resto del mondo, dalla Grecia fino all'Australia e agli Stati Uniti. Un modello che si basa su elevate densità di impianto, pari ad almeno 1.200 alberi ad ettaro e sulla meccanizzazione di ogni attività in campo.
Un modello che permette di ottenere rese elevate, anche di 15-18 tonnellate ad ettaro, a fronte di una contrazione dei costi di produzione, visto che la potatura e la raccolta vengono eseguite meccanicamente. Per i sostenitori del superintensivo si tratta di un modello produttivo efficiente, che permette di essere competitivi sul mercato. Per i detrattori è un tradimento della tradizione e uno snaturamento del made in Italy, visto che per fare superintensivo occorre utilizzare varietà spagnole o greche (anche se stanno arrivando cultivar nostrane).

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Olivo superintensivo, due esperienze italiane

Per fare chiarezza abbiamo chiesto il parere di due olivicoltori italiani che da diversi anni fanno superintensivo. Il primo è Pietro Leone, titolare della Tenuta Cericola, 84 ettari di oliveto in provincia di Foggia, a Borgo Incoronata. Il secondo è Patrizia de Leone, 10 ettari ad Aprilia, in provincia di Latina.

"Nel 2000 sono stato in Spagna e quando ho visto il loro modello di produzione me ne sono innamorato. Con sole due persone facevano la raccolta, mentre da noi avevi bisogno di tanta manodopera", spiega Pietro Leone, che tornato a Foggia gira il territorio raccontando la sua esperienza e cercando appoggio tra produttori e associazioni.

"Tutti mi davano contro, nessuno mi ascoltava e capiva la grande opportunità. Così ho fatto da solo e nel 2009 sono riuscito a piantare il primo ettaro di superintensivo. Nel 2013 ho raccolto le prime olive e ho organizzato una giornata dimostrativa. Ma ancora niente, mi dicevano che volevo deturpare il territorio, snaturare l'olivicoltura pugliese", racconta Leone che però è andato per la sua strada e ora ha una azienda con 85 ettari di proprietà, tutti ad olivo superintensivo.

I primi impianti sono stati fatti con densità di 1.400 piante ad ettaro, mentre gli ultimi con 2mila piante/ettaro. I filari sono dotati di un sistema di irrigazione e la concimazione avviene tramite fertirrigazione. Tutte le operazioni sono meccanizzate, dalla potatura fino alla raccolta delle olive, che avviene con due macchine scavallanti New Holland (e una terza in arrivo).

Leone ha provato tutte le varietà adatte al superintensivo, quali Arbequina, Koroneiki, Lecciana, Oliana e Arbosana. Ma le prime tre si sono dimostrate inadatte. "Troppo vigorose per i nostri areali. I nuovi impianti li facciamo con altre varietà e stiamo sperimentando anche cultivar locali". L'innovazione non si ferma e infatti la Tenuta Cericola collabora con le Università di Bari, Foggia e Perugia per sperimentare nuove cultivar e nuove tecniche di coltivazione.


"Con il superintensivo teniamo bassi i costi di produzione, pari a circa 2mila euro ad ettaro, ma sul mercato non vogliamo andare con il solo vantaggio competitivo del prezzo. Noi facciamo prima di tutto qualità. Le piante sono seguite costantemente per dare il meglio. Le olive, una volta raccolte, sono molite nell'arco di due ore. Usiamo le migliori tecnologie e pratiche: raccogliamo le drupe nei bins e le laviamo prima della macinatura. L'olio viene conservato in silos in acciaio inox a temperatura costante. Questo ci porta a spuntare prezzi di mercato perfino superiori a chi produce olio in maniera tradizionale, ma non puntando sulla qualità", conclude Leone.

Ad oggi il superintensivo nella provincia di Foggia è una realtà che sta crescendo e la Tenuta Cericola ha fatto da catalizzatore, organizzando eventi, prove in campo e svolgendo anche l'attività di consulenza e contoterzismo. Si è pure formata una cooperativa con un'ottantina di soci che coltivano circa 1.700 ettari di oliveti superintensivi, ma che ha interessi anche nei mandorleti, sempre superintensivi.


L'esperienza nel Centro Italia

Dalla Puglia al Lazio, dove Patrizia de Leone, titolare dell'azienda Frantoio Casale San Giorgio, gestisce dal 2010 un impianto di 10 ettari di olivo superintensivo. E anche ad Aprilia (Latina) gli inizi non sono stati facili. "Sono tornata in azienda nel 2005, dopo la morte di mia nonna e insieme a mio marito abbiamo deciso di riprendere in mano l'attività di famiglia, che nel tempo era stata un po' lasciata andare. Ma volevamo avere un approccio innovativo e così abbiamo optato per l'olivicoltura superintensiva", spiega Patrizia. "All'inizio è stato difficile perché mancavano le informazioni e sul territorio la nostra scelta è stata molto osteggiata".

Oggi l'azienda ha 10 ettari ad oliveto con varietà quali le spagnole Arbequina, Sikitita e Arbosana e la greca Koroneiki. L'impianto è stato fatto con 1.700 piante ad ettaro e produce circa 90-100 quintali/ettaro. Le olive, raccolte grazie ad una macchina scavallante New Holland, sono molite direttamente in azienda e l'olio è imbottigliato e venduto online o agli operatori del canale Horeca. "Come azienda puntiamo sulla qualità e sulla valorizzazione delle nostre produzioni", sottolinea Patrizia. "Inoltre per ammortizzare i costi del frantoio offriamo il servizio di molitura delle olive agli agricoltori locali".

Le olive sono raccolte grazie ad una macchina scavallante New Holland

I vantaggi del superintensivo sono per Patrizia innegabili: "Al momento della raccolta l'impiego della raccoglitrice scavallante ci permette di finire tutto il lavoro in soli tre giorni, adoperando un numero limitatissimo di persone. In questo modo si mantengono i costi molto bassi".

Il problema, semmai, riguarda la potatura. "In teoria il superintensivo dovrebbe essere completamente meccanizzato, ma nella nostra azienda la potatura deve essere eseguita a mano, mentre solo la cimatura è meccanizzata. Questo perché i nostri terreni sono molto fertili e quindi le piante sono cresciute inaspettatamente troppo e potando meccanicamente rischiamo di comprometterne la produttività".

Il contenimento non ottimale dei costi, la pandemia che ha bloccato il canale Horeca e la competitività del mercato si fanno dunque sentire. "La situazione non è facile, ma riceviamo comunque grandi soddisfazioni".


Concludendo: superintensivo sì, ma facendo attenzione

L'olivicoltura italiana ha bisogno di una scossa e l'approccio superintensivo può essere una strada da percorrere per tornare a vedere la sostenibilità economica del comparto. Ma non basta fare superintensivo per avere i conti in ordine. Prima di tutto occorre pianificare bene i nuovi impianti, rivolgendosi a tecnici qualificati e studiando bene il territorio (la collina è ad esempio off limits), per evitare di avere sorprese negli anni successivi.

E poi è necessario puntare sulla qualità, adottando le più moderne tecniche per preservare in frantoio l'eccellenza espressa in oliveto. Prova ne è che entrambe le aziende hanno oli che hanno vinto premi. Qualità e costi bassi di produzione sono dunque l'accoppiata vincente. Mentre pensare di abbattere solo i costi, offrendo però un prodotto di qualità medio bassa e quindi remunerato poco sul mercato, non può essere la strada vincente.