E se si recuperasse la CO2 prodotta durante la fermentazione alcolica per venderla? Una domanda sicuramente non nuova, ma che con i rincari delle materie prime sta tornando di grande attualità.
È di questi giorni infatti la notizia, rimbalzata anche su giornali e televisioni nazionali, che aziende leader nel settore delle acque minerali rischiano di fermare la produzione di acqua e bibite gassate dopo che il prezzo dell'anidride carbonica per uso alimentare è aumentato di circa 7 volte, passando da 3mila euro a 21mila euro alla tonnellata.
Eppure, quasi paradossalmente, in questi stessi giorni tonnellate di ottima CO2 vengono letteralmente buttate via in quasi tutte le cantine d'Italia impegnate nella vendemmia.
La fermentazione alcolica infatti produce alcol e CO2, ma quest'ultima viene normalmente dispersa nell'ambiente, a parte nel caso degli spumanti e dei vini frizzanti (oltre che della birra), dove rimane nella massa del liquido a formare le bollicine.
E si tratta di un'ottima CO2, ottenuta nel corso di una trasformazione alimentare, non pura, ma con contaminanti non particolarmente problematici da gestire, diversamente da quanto avviene invece per quella prodotta durante la combustione di legna o di altri combustibili che è sempre contaminata da ceneri e prodotti secondari di combustione anche pericolosi per la salute umana.
Per questi motivi l'idea di recuperare la CO2 di fermentazione non è nuova ed esistono anche impianti più o meno sperimentali per farlo.
Infondo basta realizzare le fermentazioni in contenitori chiusi, provvisti di tubi e compressori in grado di convogliare e stoccare l'anidride carbonica in bombole.
Ovviamente non è una cosa che si può improvvisare, viste le quantità di gas che si possono produrre e le pressioni che si possono sviluppare.
Inoltre la CO2 prodotta va purificata perché assieme ad esse si trovano mescolati altri gas, principalmente vapori di alcol etilico (e in piccola parte anche di alcol metilico) e azoto.
Tra i progetti più recenti c'è stato il progetto E-CO2, promosso dal Consorzio Tutela Vini Soave e Recioto di Soave e concluso nel 2013.
A quel tempo non si parlava tanto di vendere la CO2, ma di recuperarla in modo da non mandarla in atmosfera ad aumentare l'effetto serra e di riutilizzarla come antiossidante in cantina.
Anche se bisogna sottolineare che l'impatto della filiera vitivinicola sulle immissioni di CO2 in atmosfera deriva per la maggior parte dalle fasi di confezionamento, commercializzazione e trasporto del vino.
Ma vediamo ora, dati alla mano, di che numeri stiamo parlando.
Dai dati del progetto E-CO2 da 1 tonnellata di uva si può produrre in media circa 80 chilogrammi di anidride carbonica.
Già per una piccola azienda che vinifichi 50 tonnellate di uva, la produzione di CO2 sarebbe di 4 tonnellate. Ai prezzi attuali dell'anidride carbonica si tratterebbe di circa 84mila euro (da cui togliere la quota di ammortamento e i costi di funzionamento dell'impianto di purificazione e stoccaggio).
Ovviamente è molto probabile che il costo dell'anidride carbonica scenda e che per una piccola e media azienda alla fine non sia economicamente conveniente realizzare un impianto di recupero della CO2.
Ma per grandi realtà aziendali o cantine sociali questa ipotesi sarà da tenere di conto sempre di più, anche nell'ottica di un'economia circolare.
Le applicazioni della CO2 infatti sono molte, e vanno dalla produzione di bibite gassate all'uso negli acquari, dalla concimazione carbonica alla produzione di alghe per uso alimentare o ambientale, da varie applicazioni industriali, alla produzione di ghiaccio secco (che altro non è che anidride carbonica solida), fino anche alla produzione di caffè decaffeinato dove la CO2 allo stato superfluido viene usata come solvente per la caffeina.
E inoltre ci sono i vari riutilizzi in cantina, dall'uso come antiossidante, a quello come gas refrigerante fino alla criomacerazione delle uve e alla criosabbiatura delle barriques fatte con il ghiaccio secco.
Insomma, di possibilità ce ne sono tante, è questione di farle diventare opportunità.