Basilico, menta, prezzemolo, rucola, spinaci, prossimamente anche origano. Crescono rigogliosi nelle loro vaschette. Non siamo in Liguria, ma a Copenaghen, in una vertical farm. Un magazzino di 7mila metri quadrati, con scaffali "coltivati" alti quattordici piani. Il livello di efficienza è massimo, l'impronta idrica rispetto all'agricoltura tradizionale è contenuta, la tecnologia impiegata è altamente robotizzata, il fabbisogno energetico è coperto dalle rinnovabili. Il consumo è circoscritto perlopiù a livello locale, così da ridurre sensibilmente i trasporti e, di conseguenza, l'impatto ambientale.

Quella di Taastrup, nei sobborghi della capitale danese, è considerata una delle fattorie verticali più grandi d'Europa. È stato calcolato che, sulla base dei consumi della popolazione danese (circa 6 milioni di persone e un consumo di circa 20mila tonnellate all'anno di tali specie vegetali), basterebbero venti impianti verticali con lo stesso "peso" produttivo, per coprire l'intero fabbisogno nazionale.

L'impianto in Danimarca non è l'unica vertical farm, naturalmente. Ve ne sono altre. Anche in Italia. Persino a Singapore e negli Emirati Arabi Uniti. Sarà questo il futuro?
 
Il settore, tanto avveniristico quanto di nicchia, suscita l'interesse degli investitori. Secondo quanto riportato da Bloomberg, PitchBook ha calcolato che nei primi tre trimestri del 2020 sono stati investiti 754 milioni di dollari di capitale di rischio, con un aumento del 34% rispetto a tutto il 2019.

Personalmente, nel 2016 ne visitai una in Giappone, a Ginza, il quartiere di lusso nel cuore di Tokyo. Era situata all'ottavo piano di un piccolo grattacielo, che ospitava quella che potremmo considerare una cartoleria. Solo che - peculiarità tipicamente giapponese - offriva centinaia di carte colorate (per scrivere, confezionare), con un allestimento suggestivo sul piano visuale. Copriva tutti i colori, in tutte le tonalità possibili, su una superficie di alcune decine di metri quadrati. Con carte di differenti spessori. Suscitava in me la stessa emozione di quando, bambino, vedevo delle giganti "cartuccere" di matite o pennarelli colorati.

Il tema delle vertical farm mi ha sempre affascinato, tanto che nel 2007 intervistai quello che poteva dirsi l'inventore di tali strutture: il professor Dickson Despommier della Columbia University di New York. Teorie che all'epoca apparivano visionarie o difficilmente irrealizzabili, visto che ne era stata realizzata solo una di fattorie verticali, in Svezia.

Certo, a vederle le vertical farm non sono poi così diverse le une dalle altre. Non ci troverete dentro gli alberi da frutto, per via delle dimensioni. Il cliché è abbastanza ripetitivo: sono strutture che sfruttano spesso le energie rinnovabili, manodopera specializzata, tecnologie a led e innovazioni in grado di ridurre l'impatto ambientale e favorire la sostenibilità. Fin qui, siamo tutti d'accordo o, in linea di principio, dovremmo esserlo.

I temi sui quali è bene forse riflettere sono altri. Il primo: chi si occupa di vertical farming può beneficiare dei contributi Pac?
Altro elemento, dal quale spero si evinca che il fascino che esercitano sul sottoscritto impianti avveniristici e ultrasofisticati non inficiano la capacità critica di giudizio su un aspetto che richiede assoluta freddezza e lucidità di analisi: possiamo anche non essere appassionati di vertical farming, non condividerne l'impostazione, considerarli agricoltori in provetta. Ma esistono ed è bene riflettere sulle potenzialità e le opportunità del settore. E persino sui limiti, a partire da quello energetico. Se è vero che l'agricoltura verticale taglia i consumi di acqua fino all'80% rispetto alle colture tradizionali, resta da affrontare la questione energetica, dal momento che una coltivazione senza suolo, con luci artificiali e riscaldamento, comporta maggiori costi di produzione, intorno al 20-30% in più.

È innegabile, osservando i dati socio-demografici, che siamo di fronte a una crescita della popolazione mondiale e assistiamo da tempo a un fenomeno di progressivo inurbamento. Avremo sempre più, nel mondo, città, metropoli, megalopoli. Come potranno approvvigionarsi di cibo? Gli orti urbani e le vertical farm potranno rappresentare una soluzione sostenibile?

Qualora anche non fossero così diffuse e strutturate - come in questa fase - è possibile però che possano fare concorrenza ad altre aziende agricole tradizionali? Se, per assurdo, la Danimarca o tutto il Nord Europa non avesse più bisogno di piante officinali ed erbe aromatiche dall'Italia, quali modifiche subirebbero le rotte commerciali di prodotti made in Italy riconosciuti a livello mondiale per qualità, profumi, tracciabilità? Dovrebbero cercarsi altri mercati? Ampliare il proprio business affiancando ai metodi di coltivazione tradizionale anche le serre hi-tech per l'agricoltura verticale, magari sostenute da impianti fotovoltaici?
Ecco perché è un mondo, quello delle vertical farm, che va affrontato senza preconcetti. Studiando, come sempre. Benvenuti nel futuro.