Era agosto quando il presidente americano tuonava su Twitter: "Chiunque faccia affari con l'Iran non li potrà fare con gli Stati Uniti. Le sanzioni contro l'Iran sono ufficialmente partite, sono le più forti mai imposte, e a novembre raggiungeranno un altro livello". Novembre è arrivato ma, guarda caso, sono proprio i produttori agricoli statunitensi a rivolgersi all'Iran per coprire il buco creato dalle mancate vendite di soia alla Cina.
Già, perché come riporta il Financial Times, a luglio l'ex Celeste Impero, principale importatore mondiale di fagioli di soia, ha aumentato drasticamente i dazi doganali sulle forniture statunitensi come contromisura per le tariffe imposte sui suoi prodotti.
Alla Borsa di Chicago, i prezzi della soia hanno registrato una contrazione del 20%, dal momento che i cinesi hanno cominciato ad acquistare i semi oleosi altrove. A quel punto le importazioni di soia della Repubblica islamica provenienti dagli Stati Uniti hanno cominciato progressivamente ad aumentare, nonostante le sanzioni imposte da Trump, che avevano però come obiettivo la vendita di macchine, di oro e di altri metalli, e la possibilità del governo di acquistare dollari americani, lasciando dunque mano libera sui prodotti agricoli.
"Esportare verso un mercato come l'Iran, e verso tutti gli altri paesi insieme, è di fondamentale importanza se la Cina, come sembra, non importerà da noi", ha spiegato Sam Funk, economista della AgServe, una società di consulenza agricola di St. Louis, una delle capitali del trade agricolo. Certo, il buco non verrà coperto, ma ci si potrà mettere una bella pezza.
Dall'altra parte dell'oceano, cioè a casa nostra, anche l'Europa torna sulle sue vecchie posizioni. Proprio mentre quest'estate Donald Trump lanciava i suoi strali da Twitter in direzione di Teheran, l'alto rappresentante per la Politica estera e di difesa comune dell'Unione europea, Federica Mogherini, incoraggiava le imprese a incrementare i propri affari con l'Iran, dato che gli impegni presi nell'ambito dell'accordo sul nucleare erano stati formalmente rispettati. Una posizione, questa, ribadita pochissimi giorni fa anche dal direttore generale per le Politiche internazionali della dg Agricoltura della Commissione europea, John Clarke, che non ha fatto mistero di confidare nel miglioramento e nello sviluppo delle relazioni commerciali con la Repubblica islamica.
"Se il paese soddisferà tutti i criteri, siamo pronti a importare prodotti agricoli dall'Iran, in particolare trote, uvetta, carne di montone, e altro", ha dichiarato Clarke a margine di una conferenza congiunta tenuta dalla Repubblica islamica dell'Iran e dall'Unione europea. In altre parole: se i produttori iraniani osserveranno gli standard richiesti, l'Unione europea migliorerà e amplierà i suoi legami commerciali nel campo della produzione agroalimentare.
Fra l'altro, restando sul piano agricolo, anche nel settore lattiero caseario nel 2018 si è instaurato un flusso di esportazioni questa volta a senso inverso, dall'Iran agli Stati Uniti. Secondo le elaborazioni di Clal.it, portale di riferimento del comparto lattiero caseario, nei primi sei mesi di quest'anno sono state esportate produzioni per 64mila dollari. Poca cosa, ma l'anno precedente i canali erano ermeticamente chiusi tra i due paesi.
Secondo alcuni analisti la strategia statunitense, lungi dal mettere a dura prova l'economia iraniana, la sta invece "svezzando" attraverso la diversificazione delle sue fonti di reddito. Ma non si tratta dell'unico effetto, sembrerebbe. Ciò che più preoccupa gli esperti, infatti, è la progressiva quanto rapida divergenza delle posizioni diplomatiche di Stati Uniti ed Unione europea, anche in aree del pianeta storicamente complesse come appunto tutta l'area del Medio Oriente. E, questo sì, rischia di innalzare un muro invalicabile nel bel mezzo dell'Atlantico.