Secondo l'Economist gli africani stanno vivendo una vera e propria 'rivoluzione verde', anche se di strada da fare ce n'è ancora molta. Se è vero che oltre il 50% della popolazione africana è impiegata in agricoltura è anche vero che i 54 Paesi del continente esportano meno prodotti agricoli della sola Thailandia.
Le motivazioni? Mancanza di investimenti, di conoscenze agronomiche, ma soprattutto mancanza di innovazione. L'agricoltura locale è ancora largamente legata a tradizioni secolari che non si avvicinano neppure lontanamente ai livelli di produzione dell'emisfero occidentale. Di come aiutare l'Africa a sviluppare un settore primario all'avanguardia si è discusso durante un incontro a Seeds&Chips dal titolo 'Giovani e tecnologie: risposte ai problemi della sicurezza alimentare nei Paesi in via di sviluppo'.
“Innovare in Africa è sicuramente una delle grandi sfide attuali”, spiega ad AgroNotizie Andrea Carapellese, investment promotion expert di Unido (United nation industrial development organization). “Tre quarti delle persone che ci faranno arrivare a nove miliardi di abitanti sul pianeta nascerà proprio nei Paesi in via di sviluppo. Ecco dunque che sviluppare il settore agricolo è cruciale non solo per assicurare a tutti accesso al cibo, ma anche per esprimere le potenzialità economiche locali”.
E le imprese europee guardano all'Africa come ad un mercato su cui investire, sia a livello di export di tecnologie e mezzi tecnici sia a livello di cooperazione. Il punto sta nell'adottare modelli sostenibili di sviluppo che possano attecchire a livello locale. Un esempio interessante è il progetto Buslin, messo in pratica in Burundi.
“Noi forniamo microcredito ai contadini per l'acquisto di sementi e bestiame”, spiega André Ndereyimana, fondatore dell'associazione che porta avanti il progetto Buslin. “Ma non ci limitiamo a questo. Siamo anche impegnati nel trasferimento di best practice per migliorare la produttività. Idee semplici, come sollevare i ricoveri per i maiali dal terreno con delle assi di legno, che però fanno la differenza”.
Per Ndereyimana però la vera rivoluzione deve avvenire a livello di cultura. “Dobbiamo cambiare la mentalità dei burundesi e degli africani: bisogna insegnargli il valore dell'impegno, della costanza, del rispetto dei contratti. Dargli fiducia e la consapevolezza che le cose possono migliorare”.
Uno dei punti critici del sistema agroalimentare africano è la parte logistica. Mentre in Occidente un terzo del cibo viene sprecato durante e dopo la lavorazione, in Africa si perde la stessa percentuale prima che i prodotti arrivino al mercato. Questo perché, banalmente, mancano strade, celle frigorifere e mezzi di trasporto efficienti.
“Per sopperire a queste mancanze abbiamo ideato un sistema di essiccazione delle derrate alimentari”, racconta Sara Canella, direttrice marketing di Solwa Srl. “Il modulo entra in un container, è facile da usare e funziona ad energia solare. E' in grado di essiccare cinquanta tonnellate di cibo al mese che poi possono comodamente raggiungere i mercati locali oppure essere esportate”.
I progetti presentati sono stati molti. Uno riguarda il fico d'India, una pianta capace di crescere in ambienti inospitali e in grado di dare frutti nutrienti e processabili per essere conservati a lungo.
Un altro, sviluppato dal Crea, aiuterà le popolazioni del Senegal.
L'Etiopia invece sta vivendo una rivoluzione intorno al grano duro e alla pasta, retaggio culturale del colonialismo italiano. Se fino a qualche anno fa il Paese importava grandi quantità di frumento oggi le cooperative di agricoltori, grazie a contratti di filiera e nuove tecniche agronomiche, stanno aumentando la produzione con l'obiettivo di raggiungere l'autosufficienza.
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