Due aspetti annunciati dal prof. Stefano Mancuso dell’Università di Firenze e che non sono così fantascientifici come potrebbe apparire.
Scendendo invece dall’iperuranio al territorio, l’assessore toscano all’Agricoltura, Gianni Salvadori, parla di una Regione virtuosa, che “utilizza solo il 25% dell’acqua per scopi agricoli e il 30% per l’industria”.
La scienza è al lavoro e, fra gli obiettivi della ricerca in ambito agricolo, c’è da sempre l’attenzione a ridurre i consumi di acqua. Eppure, i falsi miti sono duri a morire, come evidenzia il numero uno dell’Unasa, l’Unione nazionale delle Accademie per le scienze applicate, lo sviluppo in agricoltura e la tutela ambientale). “Alcuni sostengono che il mais sia una coltura che assorbe troppa acqua. Non è affatto così, anzi – spiega Stanca – in Pianura padana il mais è l’unica pianta che riesce a usare l’acqua meglio di altre. Per sfruttare una molecola di acqua il mais ne utilizza 500, il frumento 700, il riso 1.300”.
In particolare, le piante sanno come reagire di fronte alle emergenze. “In caso di fenomeni di stress – prosegue Stanca – ci sono geni sensibili che si allertano velocemente per far sopravvivere la pianta”.
Le nuove sfide saranno l’utilizzo di marcatori molecolari, grazie ai quali cercare di risolvere il problema della siccità. Per fare ciò, diventa determinante la mappatura genomica.
E se il genoma del frumento, come dichiara Stanca, “è cinque volte più complesso di quello dell’uomo”, per la fine del 2013 “il mondo avrà in mano il genoma del frumento, in forza del quale si potranno ottenere miglioramenti delle performance produttive e assicurare un’efficienza superiore nell’uso dell’acqua”.
Le previsioni per il mais del futuro, giusto per dare qualche indicazione numerica, sono di arrivare a produrre 150 quintali ad ettaro.
Più in generale, la missione sarà quella di arrivare a determinare una sorta di meta-genoma, “cioè un sistema di microrganismi che vivono intorno alla pianta e che sono capaci di inviare segnali alle piante”.
Ma non è soltanto la scienza ad essere al lavoro. In campo è sceso anche l’Unesco, come racconta l’architetto Pietro Laureano, consulente dell’organizzazione delle Nazioni Unite e presidente dell’Itki (International traditional knowledge institute). “L’allarme per gli ecosistemi è talmente alto che l’Unesco sta cambiando ottica e promuovendo la tutela dai monumenti al paesaggio – afferma -. Oggi, grazie anche al lavoro dell’Unesco, nessuno distruggerà più una chiesa medioevale, ora però la missione è far capire che anche il passaggio è importante come e più dei monumenti”.
La salvaguardia degli ecosistemi, assicurata anche attraverso l’agricoltura, è un elemento chiave per la sopravvivenza. “Pensiamo ai terrazzamenti di basilico alle Cinque Terre – racconta Laureano – o agli ulivi centenari che sono un baluardo contro le frane. Persino negli ziggurat di quattromila anni fa si raccoglievano i rifiuti urbani per produrre energia”.
Attenzione, dunque, all’acqua come elemento fondante della vita e dell’agricoltura. Senza dimenticare, per un uso razionale dell’oro blu, l’acqua virtuale, “un concetto – come precisa Elisa Masi del Dipartimento di Scienze delle produzioni vegetali dell’Università di Firenze – coniato nel 1993 dal professor John Anthony Allan del King’s College di Londra, in base al quale si definisce quanta acqua è contenuta nella produzione e nella commercializzazione di alimenti e beni di consumo”.
In base a questi parametri, Masi spiega che “in un chilogrammo di pane sono contenuti virtualmente 1.600 litri di acqua, in uno di riso 2.500 litri, in un kg di carne di manzo sono contenuti 15.400 litri di acqua”.
Nel 2002, poi, è stata definita la water footprint, l’impronta idrica, cioè il volume di acqua che un individuo consuma quotidianamente per un determinato bene. “L’Italia è un Paese fortemente importatore di acqua virtuale: 101,4 milioni di metri cubi annui, contro i 39,3 esportati”.
E nella classifica mondiale della water footprint, se gli Stati Uniti guidano la classifica con 2.483 metri cubi/anno pro capite, l’Italia è al secondo posto con 2.332 metri cubi e la Tailandia e al terzo posto con 2.223 metri cubi”.
Come fare meglio? “Con una maggiore efficienza delle irrigazioni, con il recupero e il riciclo dell’acqua, riducendo gli sprechi e gli inquinanti”.
Nei prossimi anni, prevede il prof. Stefano Mancuso, professore associato presso la facoltà di Agraria dell’Università di Firenze e direttore del laboratorio internazionale di Neurobiologia vegetale, “si prevede una diminuzione dell’acqua per uso agricolo nei Paesi occidentali, e di un aumento nei Paesi in via di sviluppo”.
In Italia, rispetto anche ad altri Paesi europei, “c’è molta più acqua, ma ne usiamo anche molta di più, perché costa poco e per il fatto che il nostro Paese ha uno dei peggiori sistemi di distribuzione dell’acqua, al punto che la perdita durante il trasporto arriva anche al 70 per cento”.
Altro aspetto sul quale Mancuso invita a riflettere è quello della cosiddetta “acqua in deroga, con parametri cioè fuori norma, tali da non rendere l’acqua potabile, se appunto non vi fosse una sanatoria normativa”.
L’eccesso di acqua, dice lo scienziato in un approccio globale alle risorse idriche, porta a fenomeni franosi. “Dal tredicesimo secolo ad oggi in Europa si sono verificate 712.000 frane in Europa; di queste 486.000 solamente in Italia, anche per tassi di cementificazione e di abbandono delle campagne molto elevati”.
Senza dubbio, però, l’agricoltura ha fatto e sta facendo la propria parte per difendere l’acqua. “Oggi per produrre un chilogrammo di cotone si utilizza la metà dell’acqua rispetto a 20 anni fa – conclude Mancuso -. E grazie alle biotecnologie possiamo contare su varietà di mais che in Africa hanno garantito rese maggiori del 20-35% in condizioni di scarsità idrica”.