Uno spettro si aggira lungo i corridoi di un museo parigino. Scivola silenzioso tra i Manet, i Renoir e i Van Gogh, proiettando ombre sinistre dalle finestre affacciate sulla Senna. No, non è il sequel de “Il Codice Da Vinci”, bensì il tema del Press Event AGCO legato al SIMA: non l’usuale presentazione di novità tecniche, non la tradizionale comunicazione di risultati commerciali. Il gruppo statunitense sceglie con grande stile e buon gusto – va detto – una strada completamente diversa e sul banco degli imputati mette niente po’ po’ di meno che la crisi globale. Davanti a oltre cento giornalisti di tutta Europa si cerca cioè di mettere a nudo le cause e la reale entità della crisi di cui si parla in ogni bar, in ogni ufficio, in ogni casa.
Il gruppo di discussione comprende Martin Richenhagen (presidente AGCO Corporation), Arnaud Roux de Bezieux (direttore generale Rabobank Francia), Sir Ben Gill Cbe (direttore esecutivo di Hawkhills Consultancy) e Klaus Martini (investimenti clienti privati di Deutsche Bank). A moderare gli interventi è chiamato Haig Simonian, autorevole inviato del Financial Times per Svizzera e Austria.
Circa un’ora dura il dibattito fra i cinque protagonisti, esposti alle penne della stampa internazionale di settore. Molte le accuse, altrettante le note polemiche. In succo, c’è accordo unanime sul bisogno di una maggiore positività nei confronti dei mercati e dei consumi, dato che non è pensabile un arresto dei processi produttivi in un mondo sempre più popolato. Un mondo che ha sempre più fame, sia di cibo che di energia. Ancora accordo unanime nel giudicare ottuse le politiche meramente protezionistiche, che solo deprimono i commerci globali. In pieno accordo appaiono i relatori anche sui danni provocati dall’eccessiva volatilità dei costi di produzione e dei prezzi finali ai coltivatori. Tirate d’orecchie molto severe giungono anche per una classe politica non all’altezza della situazione, come pure per i media, reputati troppo allarmisti e pessimisti. La prima avrebbe fatto allargare il problema più del dovuto, i secondi l’avrebbero fatto apparire più grave di quel che è agli occhi di un’opinione pubblica sempre più spaventata e insicura.
Sorvolando sul tentativo di sbolognare ai presenti in sala tutta la colpa del pessimismo popolare, su alcuni punti ci si può trovare comunque in sintonia. Di certo, per aumentare la ricchezza e il benessere globale servono tecnologia e ricerca, veri pilastri dello sviluppo economico e sociale. Come pure aiuterebbe un approccio mentale più positivo e ottimista. Ma c’è un ma: al coro sul palco manca l’affondo al cuore del problema. Non si giunge cioè nella pratica alle domande giuste. Ovvio quindi che non si giunga nemmeno alle risposte giuste. Mentre Roux de Bezieux mantiene saggiamente un profilo basso e defilato, il collega tedesco non esita ad assumere posizioni che definire coraggiose è usare un eufemismo. Ascoltando Klaus Martini infatti, parrebbe che la crisi non sia nemmeno di origine finanziaria, bensì deriverebbe da una propensione all’acquisto spesso superiore alla capacità di pagamento. In altre parole, avremmo comprato di più di quello che potevamo permetterci e alla fine non abbiamo avuto più i soldi per onorare le rate in sospeso. Strano: per risolvere la crisi ci viene detto che dobbiamo aumentare i consumi e ridare così impulso all’economia, poi scopriamo da Martini che la crisi sarebbe derivata dal classico e insensato passo più lungo della gamba. Inoltre, nulla vien detto da Martini circa i tassi variabili dei mutui, passati in poco più di un anno a livelli tali da rendere impossibile pagare le rate a molte  famiglie di reddito modesto. Ancora, Martini glissa su tutti quei fondi, obbligazioni e titoli cosiddetti “tossici” che con troppa disinvoltura molte banche hanno rifilato ai propri clienti. Clienti i quali sarebbero entrati in banca per avere consiglio su come far fruttare i propri risparmi e si sono trovati buggerati proprio da quel consulente che avrebbe dovuto in teoria fare i loro interessi. E non ci sono solo i piccoli risparmiatori nella rete degli investimenti boomerang, ci sono anche numerosi comuni italiani, indebitati oggi in modo pesante dopo aver ceduto alle lusinghe finanziarie dei famigerati “derivati”. Martini, infine, forse dimentica di come in un passato recente si guardasse con ottimismo ai margini di crescita dell’economia “a rate”. Quell’economia insomma che prende i soldi dal futuro per farci avere dei beni di consumo nel presente. Fino a che il futuro stesso diviene presente e, come tale, ci presenta appunto il conto da pagare. Quell’economia sulla quale si è basata per decenni la crescita del PIL statunitense, mentre da noi ancora si comprava per lo più ciò che ci si poteva permettere. Infatti, la percentuale di acquisto rateale in Italia era fino a pochi anni fa circa un terzo di quella americana: potevamo quindi fare di più e di meglio. Peccato che le analisi dei guru della finanza prendessero a modello di sviluppo economico un Paese di indebitati fino al collo. Un Paese che per mantenere alto il tenore di vita non ha fatto bene i conti con le proprie tasche. Non c’è da stupirsi quindi che il domino finanziario sia partito proprio dagli USA.
Che in ogni talk-show ci voglia un “cattivo” è fatto assodato e fa quindi parte del gioco. Ma Klaus Martini ha forse teso un po’ a esagerare. “No Martini, no party”, diceva un noto spot di tempo addietro. Ma quello era tutto un altro Martini: un conto infatti è l’espressione di un’opinione, un altro è la provocazione e la mancanza di rispetto per l’intelligenza dei propri interlocutori. Come detto, manca quindi l’affondo, la messa a nudo del seme di tutti i mali, del “Peccato Originale” dal quale tutto discenderebbe.
Forse, per capire da dove perde la diga dell’economia mondiale, basterebbe pensare che una città come Las Vegas per illuminare i propri casinò consuma più energia - in una notte - di quanta ne consumi un Paese come il Benin o il Togo in un anno. Forse, basterebbe pensare che per 1 € che noi paghiamo per avere caffè, cotone o altri beni d’importazione, ai produttori vanno solo pochi centesimi. Forse, basterebbe ricordare che oltre a lambiccarsi il cervello su come produrre più ricchezza, bisognerebbe anche avere il coraggio di ammettere che l’equità della sua ridistribuzione è ancor più importante del suo incremento puramente numerico. Se siamo tutti d’accordo che è vergognoso che un chilo di zucchine sia venduto a 1,5-1,8 €, mentre al produttore vengono riconosciuti solo 15-20 centesimi, perché non ampliamo la visione al resto del Globo? Nella sperequazione non si può trovare la stabilità dei mercati. Non vi può essere sviluppo sostenibile se i benefici di questo stesso sviluppo finiscono per lo più nelle solite tasche. Non ci saranno boom economici nel III° millennio finché il 40% delle ricchezze mondiali sarà concentrato nell'1% della popolazione1.

Perché in un mondo di poveri nessuno consuma, nessuno compra e quindi nessuno cresce. Pur tenendo le distanze da ipocriti buonismi puramente assistenzialistici, finché i ricchi saranno sempre di meno (ma sempre più ricchi) e i poveri sempre di più (e sempre più poveri) le crisi non potranno che susseguirsi una all’altra, passando da quelle economiche a quelle ben più gravi di tipo sociale, sanitario, migratorio e bellico. Con buona pace dei mille propositi mai mantenuti.

La saggezza dei nonni soleva dire infatti: “la colpa morì fanciulla, perché nessuno la volle”.
E il suo fantasma continua ad aggirarsi per i corridoi del Musèe d’Orsay.
 

(1) Fonte: The Guardian, 18 feb 2009