Ma come definire con semplicità il vaccino? Quando ero un giovane e di belle speranze studente di medicina veterinaria, durante il corso di malattie infettive per farci comprendere cosa è il vaccino, il professore utilizzò una metafora: "il vaccino è un trucco volto a far credere al sistema immunitario di trovarsi di fronte al microrganismo patogeno e a reagire di concerto attivando una risposta specifica, gli anticorpi". Fin dagli esordi della vaccinologia risalenti alla fine del Settecento, allorché Edward Jenner allestì il primo vaccino contro il vaiolo umano utilizzando escare prodotte dal vaiolo bovino, la vaccinazione fu pesantemente osteggiata dalla conservazione di matrice religiosa. Da allora sono passati tanti anni e Jenner ha avuto la sua meritata rivincita: il vaiolo nel 1972 è stato dichiarato eradicato dalla faccia della terra. E ciò ad opera di un estensivo e sistematico impiego della vaccinazione.
Ma non illudiamoci circa la totipotenza della vaccinazione. Anche se il contrasto verso molte malattie infettive si può avvalere dalla vaccinazione, ci sono patogeni che sfuggono al sistema immunitario, pertanto si devono considerare non vaccinabili o difficilmente vaccinabili. È il caso dell'Hiv, responsabile dell'Aids, e più di recente del virus Ebola che sta devastando alcune aree del continente africano suscitando serie preoccupazioni circa il rischio che la malattia possa uscire dall'alveo geografico di origine fino ad interessare i paesi occidentali. Speriamo tutti che non succeda e le autorità sanitarie stanno lavorando alacremente in tal senso, ma la storia insegna che le malattie infettive non riconoscono i confini tracciati dagli uomini. Questa consapevolezza non deve indurre un ingiustificato, diffuso allarmismo, ma non ammette la trascuratezza del rischio.
Il professor Sandro Cavirani, autore di questo articolo, è docente di malattie infettive degli animali domestici presso l'Università di Parma
Effetto contagio
Fino agli anni Novanta possiamo affermare che il ruolo cardine della vaccinazione nel controllo-eradicazione delle malattie infettive dell'uomo e degli animali non è stato sostanzialmente messo in discussione. Poi nel 1998 è successo un evento che ha minato la credibilità della vaccinazione. Un medico inglese, A. Wakefield, pubblicò su una prestigiosa rivista scientifica un articolo che dimostrava l'associazione causale tra il vaccino contro il morbillo e l'autismo. Questo ha prodotto un comprensibile sconcerto nella comunità sanitaria con inevitabili riflessi sull'opinione pubblica. Successivamente, nel 2000, sulla medesima rivista lo stesso articolo, a seguito di attenta revisione sperimentale, fu rigettato pubblicamente in quanto i dati esposti erano risultati falsi.L'autore fu accusato di frode e interdetto dalla professione medica per aver deliberatamente manipolato i dati scientifici di cui in precedenza. Nonostante ciò, le sue false teorie hanno lasciato un segno e continuato a circolare, in particolare sui siti web. Si stima che oggi quattro persone su dieci continuino a ritenere che ci sia una correlazione tra vaccino contro il morbillo e autismo, anche se è stato ampiamente dimostrato che questa terribile malattia origina da alterazioni di ordine genetico. Dati ufficiali indicano che l'incedere della disaffezione dall'impiego del vaccino contro il morbillo sta portando ad un crescente, preoccupante aumento di casi di malattia, fenomeno questo che sta interessando gran parte dei paesi occidentali, Italia compresa. Si ritiene che sotto la soglia dell'85% di popolazione vaccinata, il morbillo possa assumere nuovamente un carattere epidemico. E di morbillo si può anche morire. È insensato che questo succeda quando esiste uno strumento, la vaccinazione, che può impedire il verificarsi di un evento funesto, che spesso coinvolge soggetti con stati transitori o permanenti di immunodepressione. Le vittime sono prevalentemente bambini.
Purtroppo oggi stiamo assistendo al cosiddetto effetto contagio. Ovvero la vaccinazione in generale viene pesantemente attaccata. Lo dimostra il fatto che anche la politica, sull'onda di pressioni esercitate da una chiassosa minoranza, stia dibattendo circa l'opportunità di rivedere l'obbligo di gran parte delle vaccinazioni previste in età infantile, da effettuarsi prima dell'ingresso in asili o scuole elementari. E questo in barba all'unanime opinione della comunità scientifica, medica, che insiste nel predicare l'incombente rischio di un ritorno di malattie finora ben controllate dalla vaccinazione. Un'ennesima conferma come l'ignoranza sia nemica del vero. E il populismo ne è la compiuta espressione politica. Al riguardo ci preme sottolineare che il termine populismo non corrisponde a popolare, ma oggi ha assunto un connotato negativo. Si riferisce infatti ad un atteggiamento politico di stampo demagogico che ha come scopo ultimo di accattivarsi il favore della gente che si sente inascoltata dall'élite che la governa. E questo atteggiamento, di prassi, va a discapito di decisioni politiche che portano a reali e duraturi benefici per la società.
Parlando di effetto contagio, non ci possiamo esimere dal costatare che posizioni ostative alle vaccinazioni stanno interessando anche i proprietari degli animali da compagnia, che vengono sempre più antropomorfizzati, attribuendo loro caratteristiche e qualità proprie dell'essere umano. Questo atteggiamento, seppur dettato da giustificabili motivazioni di ordine sentimentale legate alla stretta convivenza tra uomo e animale, rischia comunque di andare a discapito della innata natura propria dell'animale in quanto tale.
Con le giuste aspettative
Il panorama degli animali da reddito è diverso. Esiste una consapevolezza diffusa dell'importanza delle vaccinazioni, avendo gli allevatori toccato con mano i danni derivanti dalle malattie infettive a carattere diffusivo. Tuttavia è da rilevare come la cultura della vaccinazione non sia ancora sufficientemente consolidata. Questo porta ad un utilizzo non corretto del vaccino e ingenera aspettative che non sono proprie della vaccinazione. Mi spiego: il vaccino non è una terapia, ma previene una singola malattia, non un complesso patologico, e vaccinando per l'Ibr prevengo l'Ibr, ma non la malattia respiratoria del bovino che è causata da più patogeni, virus e batteri. In tal senso troppo spesso è mancata un'adeguata azione educativa da parte del medico veterinario che è per norma il depositario della gestione sanitaria di un allevamento, indipendentemente dalla specie allevata.A scanso di dubbi, vale ribadire che la vaccinazione è una pratica sanitaria e come tale va gestita e promossa da un sanitario, nella fattispecie il medico veterinario. La scelta di prendere in esame un comparto zootecnico specifico, quale l'allevamento bovino da latte, è dettata dalla necessità di fornire una esemplificazione sul tema vaccinale, evitando così improduttive generalizzazioni.
La cultura della vaccinazione non è ancora sufficientemente consolidata nei nostri allevamenti e questo può portare a usi scorretti e ad aspettative improprie
Vaccino vivo o vaccino spento?
Si tratta di una tema che è stato e continua ad essere oggetto di discussione in ambito buiatrico, ma non solo. Tradizionalmente si ritiene che il vaccino vivo è più efficace che sicuro, per converso il vaccino spento è più sicuro che efficace. Di fatto si tratta di un principio di carattere generale che si deve ritenere superato. Attualmente l'affinarsi delle tecniche di attenuazione hanno reso i vaccini vivi maggiormente sicuri e parimenti il miglioramento delle procedure di inattivazione e l'utilizzo di adiuvanti innovativi hanno reso i vaccini inattivati più efficaci. Di fronte alle suddette evidenze vengono a cadere i pregiudizi circa l'impiego di una delle due differenti tipologie vaccinali.Diversa è la situazione relativa al vaccino marker, ovvero in grado di distinguere gli animali infetti da quelli vaccinati. Questa è stata una vera e propria rivoluzione in ambito di eradicazione di alcune malattie degli animali, di quelli da reddito in particolare. Al riguardo, va detto che tale principio non trova applicazione in medicina umana, dove la vaccinazione è ancora prevalentemente mirata al controllo non tanto dell'infezione quanto della malattia. Pertanto il concetto di eradicazione risulta meno restrittivo.
Immunità di mandria
L'assunto che individua il vaccino quale strumento fondamentale della prevenzione delle malattie infettive nel contesto della medicina di popolazione, per noi riconducibile all'allevamento, richiede un cambio di mentalità. Oggi la pratica vaccinale deve perseguire la herd immunity ovvero l'immunità di mandria. Il termine è utilizzato tal quale anche in medicina umana per indicare una popolazione esposta allo stesso rischio. Come possiamo definire la herd immunnity? Si tratta di una condizione che si realizza quando gran parte dei soggetti costituenti una popolazione (es. l'allevamento) ha acquisito uno stato immunitario in grado di ostacolare la diffusione di un determinato patogeno, riducendo drasticamente il numero di soggetti sensibili e disponili ad essere infettati. In altre parole: più è grande la percentuale di soggetti immuni, più si riduce la possibilità che quelli non immuni vengano a contatto con il patogeno. Trasponendo quanto precede in medicina umana, si può affermare che la vaccinazione è un atto etico in quanto è in grado di proteggere anche i soggetti che non possono essere sottoposti a vaccinazione essendo affetti da stati patologici diversi, in particolare riguardanti una compromissione transitoria o permanente del sistema immunitario.
La pratica vaccinale deve perseguire la herd immunity ovvero l'immunità di mandria
Ma quanti soggetti in una ben definita popolazione devono essere immuni-vaccinati per ottenere una condizione di herd immunity? Questo dato si esprime con una percentuale che è definita come Proporzione critica (Pc). Ogni malattia ha una sua propria Pc, che è legata alla diffusibilità del patogeno causa della stessa e alla potenza (grado di efficacia) del vaccino impiegato.
Possiamo dunque affermare che, sulla base di quanto precede, perde significato la tipologia vaccinale (vivo o inattivato), a beneficio di una strategia vaccinale che persegua il conseguimento della herd immunity. E quando abbiamo raggiunto la herd immunity cosa si deve fare? Va mantenuta nel corso del tempo, e per ottenere questo devono essere previsti interventi vaccinali di richiamo. La cadenza temporale con cui si devono eseguire i richiami è definita Intervallo critico (Ic) e dipende dalla Durata dell'immunità (Di) evocata da uno specifico vaccino. Tale intervallo è stabilito a monte dalle indicazioni del produttore riportate nel foglietto illustrativo che accompagna ogni farmaco, vaccino incluso. Di recente è emersa un'apparente contraddizione. Vaccini che in origine prevedevano il richiamo semestrale, dopo diversi anni di commercializzazione, pur rimanendo identici, vengono oggi prescritti per il richiamo annuale.
Questo ha creato negli utenti (veterinari e allevatori) un comprensibile sconcerto e posto dubbi circa la veridicità dell'informazione. Cosa è successo in realtà? Semplicemente il produttore ha eseguito ulteriori, specifici studi sperimentali volti a verificare la durata dell'immunità protettiva indotta del vaccino e pertanto, alla luce di nuove evidenze sperimentali, ha provveduto ad ottimizzare la cadenza dei richiami vaccinali. Nulla di misterioso o truffaldino.
Corretta programmazione
Premettiamo che nel caso di una vaccinazione obbligatoria per legge, quale è quella verso la blue tongue, malattia che da tempo investe alcune aree del nostro paese, non è consentita discrezionalità alcuna. Nel caso di malattie non sottoposte ad imposizioni normative, la vaccinazione, o meglio, la programmazione vaccinale non va affrontata seguendo il sentito dire, ma deve essere una scelta consapevole derivante da motivazioni il più possibile oggettive. Possibilmente si deve allestire "a vaccination program tailored for a herd", liberamente tradotto "come un vestito deve essere ritagliato per ogni cliente, così un programma vaccinale deve essere ritagliato per ogni allevamento". In questa sede non vogliamo demonizzare i protocolli di vaccinazione standard, ma nel limite del possibile dobbiamo fare ciò che realmente serve, calandosi nella specificità che connota il singolo allevamento.La prassi corretta è una valutazione preliminare del rischio connesso ai patogeni presenti in allevamento. Detta informazione si ricava attraverso analisi di laboratorio mirata alla dimostrazione dei patogeni coinvolti in casi di malattia conclamata o, in assenza di questi, attraverso indagini sierologiche, preferibilmente eseguite a campione. Il complesso di queste evidenze di ordine diagnostico deve indirizzare la gamma dei patogeni verso i quali va strutturato il programma vaccinale. Questo deve essere mirato al controllo dei patogeni individuati, ma nel contempo deve essere rispettoso delle caratteristiche strutturali e manageriali dell'allevamento in questione, nonché degli imprescindibili vincoli di ordine economico. Una problematica da non trascurare si riferisce alla vaccinazione verso patogeni da cui l'allevamento è indenne. È il caso dell'Ibr. La scelta di vaccinare o meno è legata alla valutazione del rischio di introdurre il virus dall'esterno. In tal senso la scelta è dettata dalla situazione epidemiologica dell'area su cui insiste l'allevamento, nonché dalla propensione a introdurre animali di provenienze diverse. Mi sembra corretto indicare che la scelta più garantista della sanità dell'allevamento rimane quella di vaccinare, tenendo anche conto che la disponibilità di vaccino marker consente di mantenere la qualifica di indennità seppure in presenza della vaccinazione.
La programmazione vaccinale, in tutte le specie animali allevate al pari dell'uomo, deve partire dai giovani. In tal senso si impongono delle scelte in merito al primo vaccino da somministrare ai vitelli. Essendo la vaccinazione un atto preventivo, la prima vaccinazione da eseguire dovrebbe essere quella verso il patogeno che il vitello probabilmente incontrerà per primo. A differenza del passato, questo non può oggi essere il virus Ibr, ma piuttosto il virus respiratorio sinciziale (Vrsb). In caso di vaccinazione precoce verso tale patogeno sono disponibili vaccini a somministrazione mucosale, segnatamente endonasale, che offrono i seguenti vantaggi: non subiscono l'interferenza da parte degli anticorpi materni, inducono una immunità specifica locale nelle sedi di ingresso del virus e nel contempo anche una immunità sistemica.
I vaccini a somministrazione endonasale contro il virus sinciziale offrono diversi vantaggi: non subiscono l'interferenza da parte degli anticorpi materni, inducono una immunità specifica locale nelle sedi di ingresso del virus e nel contempo anche una immunità sistemica
Conclusioni
Ci sarebbe tanto altro da dire, ma lo scopo prevalente di questo articolo non è quello di fornire una dettagliata ricetta vaccinale verso le diverse malattie che via via siamo chiamati a contrastare, ma piuttosto di aumentare la sensibilità verso una pratica, la vaccinazione, di cui non possiamo fare a meno per salvaguardare la salute nostra e dei nostri animali.A questo punto mi sia concessa una libera espressione, il cui intento non è di essere offensiva, ma solo provocatoria: il più grande insuccesso della vaccinologia è di non aver ancora trovato un vaccino contro la stupidità.