Fresco e di elevata qualità. Queste le caratteristiche delle quali si “nutre” la gastronomia giapponese. Che non è solo sushi, tempura e sukiyaki, un piatto assai composito dove trionfano carne bovina e tofu. C’è molto latte, anche questo da consumare fresco, e una quota non modesta di formaggi. Ma di latte in Giappone se ne produce poco, solo 7,7 milioni di tonnellate per una popolazione doppia di quella italiana. Sarà per questo che gli allevatori giapponesi il latte lo vendono a caro prezzo, oltre 70 centesimi al litro, contro i circa 40 centesimi che entrano nelle tasche degli allevatori italiani. E gran parte della produzione giapponese (oltre il 50%) se ne va in consumo fresco (latte alimentare e prodotti freschi), quasi a sottolineare che anche il latte rispetta i canoni fondanti della cultura gastronomica giapponese, che non disdegna tuttavia i formaggi. Formaggi che il Giappone produce in modeste quantità, appena 127mila tonnellate, mentre in Italia, per fare un confronto, la sola produzione di formaggi Dop sfiora le 500mila tonnellate. Per soddisfare il consumo interno (che si spinge a 238mila tonnellate), il Giappone deve fare ampio ricorso alle importazioni, ammontate nel 2010 a 199mila tonnellate. E in prospettiva questa cifra potrebbe aumentare.

 

Un mercato da valorizzare

Dunque il Giappone è un mercato interessante per chi, come l'industria lattiero casearia italiana, guarda all'export per dare alle sue produzioni una prospettiva di crescita. Perché in Italia il consumo di formaggi è ormai stabile da tempo intorno ai 23 kg pro-capite, per un totale di quasi 1,4 milioni di tonnellate, e ogni spinta sulla produzione può tradursi in un eccesso di offerta che avvilisce il mercato generando crisi dalle quali è poi difficile uscire. Quanto accaduto nel recente passato per due grandi formaggi della nostra tradizione casearia, il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, sono lì a dimostrarlo. Dopo due anni di prezzi da svendita, il mercato è tornato a salire grazie ad una riduzione della spinta produttiva ed al contemporaneo espandersi della quota destinata all'export. Un export indirizzato in prevalenza al mercato europeo che assorbe la maggior parte delle quantità complessivamente esportate dei due formaggi (in totale circa 70mila tonnellate, in costante crescita negli ultimi anni). Ma ora i magazzini, complice la risalita del prezzo di mercato, si stanno di nuovo riempiendo e lo spettro di una nuova crisi preoccupa non solo i caseifici, ma anche gli allevatori, visto che il prezzo del latte è in gran parte legato all'andamento del mercato caseario. Che fare, dunque?

 

Parola d'ordine, export

Una leva è certamente quella del contenimento della produzione, oggi difficile da attuare a causa dei limiti che le autorità antitrust impongono alle iniziative di controllo da parte dei Consorzi di tutela. Il 'Pacchetto qualità' e il 'Pacchetto latte' che Bruxelles si appresta a licenziare dovrebbero offrire nuovi strumenti in questa direzione, ma altrettanto efficace è una spinta sull'export, strumento principe per offrire al settore caseario opportunità di crescita altrimenti compromesse.

Ecco allora che il Giappone e la sua “voglia” di formaggi può diventare un'interessante opportunità. Tanto più che le importazioni giapponesi in questo comparto hanno il segno più davanti. Ma i nostri formaggi non figurano ai primi posti nell'import giapponese. Prima di noi ci sono l'Australia e la Nuova Zelanda che da sole coprono oltre il 50% delle importazioni di formaggi in Giappone. Seguite da Francia e Stati Uniti per un altro 16%. Poi arriva l'Italia, al quinto posto nella graduatoria, con un modesto 6% (secondo i dati di Assolatte). Numeri che lasciano intendere che ci siano buone opportunità di crescita per i nostri formaggi anche nel paese del Sol Levante. A proposito di export italiano in campo caseario, una recente indagine di Ismea ha messo in evidenza che delle 125mila tonnellate di formaggi Dop che l'Italia vende all'estero, il 97% è composto da soli 5 formaggi, i due grandi “Grana” (da soli fanno oltre il 50% di volume e di fatturato) e poi Mozzarella di bufala campana, Pecorino Romano e Gorgonzola. Ben poco della “torta” resta per gli altri 37 formaggi Dop che la Penisola esprime. Non perché siano meno “buoni” dei loro cugini di alto lignaggio. La loro “colpa” sta nella frammentazione del settore che conta un elevato numero di caseifici, spesso di piccole dimensioni, e nella scarsa capacità di aggregazione. Il risultato è la preclusione dei mercati esteri, che richiedono invece organizzazione e investimenti. Il Consorzio di tutela del Parmigiano Reggiano e quello del “cugino” Grana Padano hanno saputo darsi obiettivi comuni sul fronte dell'export ed hanno raggiunto buoni risultati ed altri ancora potranno ottenerne su nuovi mercati, come quello giapponese. Un esempio che gli altri Consorzi potrebbero imitare.