Non ho mai nascosto le mie avversità verso la svolta simil ambientalista legata al Green Deal della Commissione Ue che tra meno di un anno ci auguriamo lascerà i centri di potere. Sia chiaro che non significa che sono contrario ad un'agricoltura più sostenibile e rispettosa dell'uomo e dell'ambiente, d'altronde la strada era già stata segnata dalla scomparsa di quella che chiamavamo convenzionale (termine che purtroppo viene ancora erroneamente utilizzato) sostituita dall'agricoltura integrata: pratica molto più complessa di quello che potrebbe sembrare. Quello che mi ha particolarmente infastidito in questi anni di ambientalismo forzato è stato l'uso della politica (e dei suoi strumenti) volto ad orientare non solo il comune pensiero quanto i fondamenti delle pratiche agricole che pagano in termini di variabilità legata al territorio, per essere irrigidite ed appiattite solo per soddisfare un improbabile obbligo (es: 25% di superficie biologica) oppure un'irrazionale rivisitazione nell'uso dei mezzi tecnici (es: fertilizzanti e fitosanitari) che sacrificherà culture e tradizioni e fa aumentare i costi.
Grazie al mio lavoro, vivo quotidianamente a contatto con norme, leggi, regolamenti, decreti, note e circolari che, se da un lato alimentano l'attività delle aziende che si occupano di affari regolatori, dall'altro creano problemi a quanti producono o semplicemente commercializzano o usano mezzi tecnici per l'agricoltura. Ci si rende conto che buona parte delle norme gettano sabbia negli ingranaggi delle attività imprenditoriali. Studiando una norma sin dai consideranda iniziali si capisce che lo scopo è quello di mettere paletti, vincoli, creare barriere, disciplinare fino all'esasperazione ogni singola sfaccettatura con la convinzione che solo in questo modo si riescano a prevenire gli illeciti. Quasi a ritenere che il primo pensiero dell'imprenditore sia proprio quello di delinquere e non di avviare un'attività che crea ricchezza e posti di lavoro. Preciso, anche in questo caso, che non auspico un Far West delle normative sui mezzi tecnici quanto la stesura di regole, poche, snelle, facili da capire e quindi da controllare, senza lasciare troppo spazio alle liste negative perché poi è sempre facile trovare scappatoie legali muovendosi proprio in quelle zone grigie che sono inevitabili quando si vuole disciplinare tutto fino all'inverosimile.
Sono tanti gli esempi che potrei illustrare ma, trattando di fertilizzanti, cito una norma Ue ed un decreto nazionale. Il regolamento Ue sui fertilizzanti, anch'esso figlio del Green Deal e dello spauracchio del cadmio (oggi dimenticato), dovrebbe disciplinare tutte le famiglie di fertilizzanti ottenute con decine di materie prime come, ad esempio, tutti i derivati animali che sono ottima fonte di azoto e fosforo proprio in ottica di economia circolare. È trascorso più di un anno dall'applicazione del regolamento e l'intero gruppo dei costituenti di origine animale è desolatamente vuoto perché si sta ancora cercando la soluzione al fatto che qualche sconsiderato possa cogliere l'occasione per truccare un mangime da concime. Ovviamente nessuno ammetterà mai che questo è il vero motivo, perché tutto è sempre in nome della salvaguardia della salute umana ma vi assicuro che questo problema in Italia stiamo ancora cercando di risolverlo da molti anni. L'esempio nazionale lo estrapolo dal decreto che disciplina, a livello locale, i fertilizzanti consentiti in agricoltura biologica. Anche in questo caso si è scelto di imporre una lista di prodotti con un esplicito riferimento ai fertilizzanti registrati al Sian (allegato 13 del decreto legislativo 75/2010) escludendo, di fatto, tutti i fertilizzanti a marchio CE. Sono stati altresì esclusi anche i prodotti utilizzati in agricoltura biologica in altri Stati membri e commercializzati in Italia grazie al mutuo riconoscimento.
Può sembrare che questi eventi non condizionino il mercato. Al contrario ci sono ricadute di natura economica ed i prezzi dei fertilizzanti aumentano anche a causa dell'eccessiva attività regolatoria che coinvolge gli operatori a tutti i livelli della catena.
Alla base di tutto c'è la miopia degli apparati burocratici che, grazie ad una frenesia autoreferenziale, perdono di vista il problema generale e sperano di risolvere la questione restringendo il campo d'azione con l'aspettativa di limitare le possibilità di agire illegalmente. Paradossalmente la conseguenza è diametralmente opposta: gli imprenditori che vorrebbero muoversi sui binari della legalità si trovano nell'impossibilità di agire, non hanno problemi, invece, coloro che decidono di operare frodando e commercializzando prodotti solo formalmente legali ma la cui composizione reale non è certo quella dichiarata in etichetta. Non è che a questi ultimi vada sempre bene e ogni tanto le cronache ci raccontano di questi raggiri ma è solo la punta dell'iceberg. Non è certo tutta colpa del Green Deal perché le pastoie burocratiche sono molto più vecchie ma ultimamente i problemi per i mezzi tecnici per l'agricoltura sono aumentati grazie all'esasperazione del concetto di sostenibilità. Auspichiamo che la prossima Commissione Ue decida di percorrere strade più pragmatiche e vicine alle esigenze delle imprese europee, sostenibilità e rispetto dell'ambiente possono coesistere con concretezza e praticità non solo nel redigere le norme ma anche nell'attività di chi quelle norme le deve osservare per fare impresa.