Il progetto è finanziato dall'Unione europea e ha come scopo analizzare "l'aria che tira" nel mondo delle energie rinnovabili, sia dal punto di vista "ufficiale", delle istituzioni europee, che dal punto di vista delle lobby, cioè delle aziende produttrici e delle loro associazioni di categoria.
Secondo la consueta prassi plutocratica degli enti al servizio dell'Ue, l'opinione dei produttori agricoli - senza i quali non ci sarebbero i biocarburanti - e quella dei consumatori, non contano.
L'EuroObserv-ER ha pubblicato il 31 luglio scorso il rapporto sulla situazione dei biocarburanti. Lo si può scaricare gratuitamente in inglese qui oppure in francese qui.
In questo articolo proponiamo ai nostri lettori e lettrici un riassunto corredato di alcuni spunti di riflessione.
Quali biocarburanti?
Innanzitutto, è necessario definire che cosa intende esattamente il menzionato Barometro per "biocarburanti". E' noto che gli euroburocrati hanno una forte propensione a complicare concetti, che di per sé sarebbero semplici e a cambiare il nome alle cose.La tabella che si può scaricare in pdf cliccando qui traduce dall'euroburocratese all'italiano alcune delle parole più ricorrenti del rapporto in questione, e le spiegazioni addizionali ivi contenute saranno di aiuto al lettore per poter capire il senso (o il poco senso) delle disposizioni normative che hanno portato alla situazione attuale.
I biocarburanti in Europa nel biennio 2015-2016
Il Barometro segnala che durante il 2016 l'Ue ha ridimensionato l'obiettivo di rimpiazzare fino al 10% dei carburanti per autotrazione con l'equivalente energetico (in Mtep), fissando un tetto del 7% e spostando il 3% restante a supporto della "mobilità elettrica". Questo ha scatenato le proteste dei produttori di Fame e bioetanolo che denunciano anche "concessioni" all'industria petrolifera (si veda l'articolo citato al punto "biocarburante di prima generazione").Quest'ultima utilizza l'olio di palma a prezzi bassi per produrre in modo più competitivo gli Htvo, scalzando dunque l'industria dei Fame, direttamente collegata al settore agricolo. Secondo l'Eurobarometro, il principale produttore francese di Fame ha ridotto la sua produzione del 25% rispetto al 2014, costringendo i produttori francesi di colza a rinegoziare i prezzi al ribasso. Tale situazione sarebbe la conseguenza dell'entrata in funzionamento di un impianto della Total che produce Htvo a partire da olio di palma, grassi animali e olio vegetale esausto.
Nel 2016, il biodiesel (contando insieme Fame e Htvo) rappresenta l'80,6% dei biocarburanti consumati nell'Ue, il bioetanolo 18,4% e il biometano solo 1%. Ad eccezione del bioetanolo, in leggero calo rispetto al 2015, la produzione del resto dei biocarburanti si è mantenuta stabile o in lieve crescita.
In Italia, il biodiesel prodotto principalmente dall'Eni, mediante processo Htvo, rappresenta il 97,7% dei biocarburanti immessi in commercio. Il 99,8% del totale prodotto è "certificato sostenibile".
In Germania, Francia, Italia e Olanda la maggiore crescita nella produzione di biocarburanti di seconda generazione corrisponde ai biocarburanti di sintesi, sia l'Htvo che le benzine sintetiche. La Svezia è il paese con la più alta percentuale di biometano nel proprio mix energetico, circa l'8% del totale dei biocarburanti e, nel contempo, è il paese con la più alta proporzione di biocarburanti certificati: il 19% dell'energia utilizzata nel settore dei trasporti proviene da essi.
Il Regno Unito, è il paese con la più alta percentuale di bioetanolo, con il 41%. La Germania è l'unico paese che mostra un calo dei consumi di biocarburanti nel 2016 rispetto al 2015. La ragione è che il sistema tedesco non premia la riduzione del consumo di petrolio bensì la riduzione delle emissioni di CO2 relative ad esso.
Orbene, i fabbricanti di biocarburanti di sintesi hanno migliorato molto l'efficienza dei loro impianti, quindi il prodotto finale comporta minori emissioni rispetto allo stesso volume di biocarburante convenzionale.
Di conseguenza, le compagnie petrolifere tedesche aggiungono minori percentuali di biocarburanti ai loro prodotti, restando comunque dentro agli obiettivi fissati dal Governo e massimizzando i loro profitti, a scapito del settore agricolo, che ne ha visto ridotti gli ordinativi.
Consumo di biocarburanti nel 2016 in ogni paese della Ue.
In ordine decrescente per consumo (primo consumatore la Francia).
(Fonte foto: © EurObserv'ER, 2017)
Traduzione delle didascalie Mario A. Rosato
La Commissione europea starebbe già pensando al "dopo 2020" con una proposta di revisione delle direttive in vigore.
E' stato proposto uno schema nel quale gli agrocarburanti dovranno diminuire gradualmente la loro presenza nel mix energetico dell'Ue, iniziando dal 7% nel 2021, per arrivare ad un massimo del 3,8% nel 2030. Nel contempo, i biocarburanti avanzati (definiti nell'allegato IX della suddetta proposta di direttiva, perlopiù materie di scarto, tranne le fantomatiche "alghe coltivate in fotobioreattori") dovrebbero aumentare dall'1,5 nel 2021 al 6,8% nel 2030.
Ad ogni modo pare che la tendenza della bozza di direttiva sia eliminare il sistema attuale basato su "due pesi e due misure", definendo obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 totali e lasciando poi che ogni paese decida quali misure attuare per raggiungerli, senza distinzioni di settore.
In Italia, in linea con la direttiva 98/70/CE (qualità della benzina ed il gasolio) le ulteriori modifiche 2001/77/CE, 2003/30/CE, e la direttiva 2009/28/CE (promozione delle energie rinnovabili) è stato introdotto l'obbligo per i fornitori di benzina e gasolio (Soggetti obbligati) di immettere una quota minima di biocarburanti nella rete nazionale, al fine di svilupparne la filiera, aumentarne l'utilizzo e limitare l'emmissione di CO2 in atmosfera.
Il nostro paese, con il dm dello Sviluppo economico 10 ottobre 2014 "Aggiornamento delle condizioni, dei criteri e delle modalità di attuazione dell'obbligo di immissione in consumo di biocarburanti compresi quelli avanzati" (GU n.250 del 27-10-2014) è stato il primo Stato europeo a fissare un calendario di sviluppo dei biocarburanti avanzati, anticipando la direttiva 2015/1513 del 9 settembre 2015.
Curiosamente, il dm italiano sancisce che i biocarburanti, prodotti da olio vegetale esausto e grassi animali di scarto, non danno diritto al doppio conteggio degli incentivi, invece la suddetta direttiva CE stabilisce il contrario. L'obiettivo nazionale è di arrivare tra il 2018 e 2019 alle seguenti proporzioni: 1,2% di biobenzina e biodiesel avanzato e raggiungere nel 2022 per arrivare al 2%.
Complessivamente, i biocarburanti dovrebbero raggiungere il 10% dell'energia, utilizzata nei trasporti, entro il 2020. Nel frattempo, in Italia la proporzione di biocarburanti è diminuita nel 2016 rispetto al 2015. Non è chiaro dal rapporto se ciò si debba a un minore volume di biocarburanti effettivamente utilizzato, o al fatto che gli olii e i grassi di scarto non danno diritto al doppio conteggio come accade, invece, negli altri paesi.
Si tratta di masochismo istituzionale o di precisa volontà di continuare a importare olio di palma, anziché migliorare la raccolta differenziata?
Il cartello dell'olio di palma contrattacca
?Come si evince da una nota stampa rilasciata recentemente dai ministri del Commercio estero di Indonesia e Malesia, i principali fornitori di olio di palma all'Europa, minacciano azioni contro l'Ue nell'ambito del Wto.Le motivazioni sono da ricercarsi nella risoluzione del Parlamento europeo (Pe) del 4 aprile 2017 sull'olio di palma e la deforestazione delle foreste pluviali poiché a quanto sostengono lede gli interessi dei suddetti paesi.
Da una attenta lettura della suddetta risoluzione sembra piuttosto una dichiarazione pro forma perché in realtà non risolve niente in concreto.
In realtà, il Pe esprime solamente un elenco di "preoccupazioni" riguardo a presunti impatti ambientali e violazioni dei diritti umani delle popolazioni aborigene causati dalle multinazionali dell'olio di palma, e segnala i diversi rapporti di alcune commissioni di inchiesta. Come dovevamo aspettarci, non c'è alcun riferimento agli effettivi danni arrecati al comparto oleicolo europeo, quali tagli degli ordinativi e prezzi al ribasso, tranne un generico invito a "trovare alternative più sostenibili, quali olio di girasole o di colza coltivati in Europa".
La risoluzione non prevede neanche sanzioni o limitazioni di alcun tipo alle importazioni di olio di palma, tranne un vago "invito ad armonizzare i dazi d'importazione, in modo da differenziare l'olio di palma sostenibile da quello insostenibile".
Analizzando le statistiche, l'Ue è il secondo importatore mondiale di olio di palma, dietro l'India, con 6.650 Mton/anno e dal 1995 al 2015 l'aumento è stato costante. Le proteste di Malesia e Indonesia appaiono dunque infondate, in quanto non ci risulta che il Pe abbia emanato alcuna direttiva a tutela della produzione oleicola europea contro la concorrenza asiatica.
Conclusioni
A quanto pare, le importazioni di olio di palma a prezzi molto più bassi rispetto agli olii vegetali europei non subiranno flessioni importanti, almeno nell'immediato futuro.Per le aziende agricole italiane il mercato dei biocarburanti sembra una trappola da evitare per le molte incertezze sulla possibilità di competere contro prodotti asiatici ufficialmente marchiati "sostenibili", malgrado la loro sostenibilità sia messa in dubbio perfino dalle istituzioni che prima li promuovevano. Per contro, la crescente tendenza dei consumatori - e conseguentemente della grande distribuzione - a preferire prodotti "senza olio di palma", sembra un'opportunità di sviluppo del settore oleario italiano a vocazione alimentare.