Un recente studio delle Nazioni Unite avverte sull'aumento della frequenza ed intensità degli incendi boschivi. Le cause sono molteplici, ma comunque legate al cambiamento climatico e alle politiche di gestione territoriale sbagliate. In particolare, lo studio segnala che la spesa statale dovrebbe concentrarsi di più sulla prevenzione degli incendi. Dal nostro piccolo, avevamo già segnalato come un supporto statale, ad esempio alla manutenzione dei castagneti, costerebbe di meno rispetto alla spesa di mantenimento della flotta di aerei antincendio.
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Recuperare la superficie boschiva persa negli ultimi decenni è cruciale per contenere l'aumento globale delle temperature. Allo stesso tempo, le colture convenzionali sono necessarie per garantire la sicurezza alimentare, la fornitura di materie prime industriali e la redditività delle imprese agricole. La futura politica europea, sulla quale abbiamo già espresso qualche perplessità, si orienterà probabilmente verso un (complicato) sistema di crediti di carbonio per incentivare la carbonicoltura, con tutti i possibili problemi indicati nell'articolo in questione. L'alternativa veramente sostenibile, almeno in teoria, potrebbe essere un cambio del paradigma produttivo, concettualmente simile alla permacoltura ma depurato da ideologie pseudoscientifiche e "bio ad ogni costo".
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La Regione Umbria ha recentemente pubblicato un bando per incentivare le filiere corte di produzione di tartufo, con lo scopo di recuperare terreni marginali, favorire lo stoccaggio di carbonio, contenere l'erosione, supportare la ricerca, e facilitare l'accesso al credito per le aziende agricole locali affinché possano competere sul mercato internazionale. Durante la presentazione nella sede della Urbani Tartufi sono stati spiegati gli aspetti politici, scientifici, finanziari e agronomici del bando, e come la capogruppo intende organizzare la filiera per sfruttare al meglio gli aiuti pubblici e rilanciare il territorio.
Saltano all'occhio alcuni parallelismi con il business del bambù proposto in Italia negli ultimi anni:
- Cospicui investimenti.
- Alti guadagni potenziali, calcolati in base a estrapolazioni di dati.
- Tempi lunghi dall'investimento all'inizio del ritorno, per via del ciclo biologico della specie.
- Domanda del prodotto in crescita su scala globale.
- Argomenti "etici" sui benefici ambientali della coltura, che mirano a toccare la sensibilità del potenziale investitore, ma che poco hanno a che fare con il ritorno dell'investimento.
- Speculazione su futuri guadagni addizionali, derivanti da incentivi sui crediti di carbonio che ancora non esistono.
Le differenze fra gli argomenti del progetto umbro e quelli del marketing italiano del bambù sono però sostanziali.
Dalle diverse relazioni del seminario si deduce che:
- La coltivazione di tartufi richiede di piantare specie forestali autoctone, quindi è effettivamente una attività che favorisce il ripristino della biodiversità.
- È un prodotto per il quale l'uso di agrochimici è ridotto al minimo, per le peculiarità biologiche del fungo.
- La selezione del terreno è un fattore cruciale, non si può coltivare il tartufo in qualsiasi luogo.
- Il rischio è alto e nessuno è in grado di garantire l'inizio della produzione o la produttività della tartufaia o il prezzo futuro del prodotto.
- Le piantine micorrizate sono certificate da università italiane e l'origine è tracciabile.
- Malgrado alcune tecniche siano ancora in evoluzione, non è una coltura nuova in Europa: si hanno già decenni di esperienza e le rese indicative sono attendibili.
- La tartufaia richiede molte cure, irrigazione controllata, e competenze agronomiche specifiche.
- Si tratta di un prodotto tipico italiano per il quale esiste un mercato certo e facilmente verificabile.
- La possibilità di guadagnare grazie ai crediti di carbonio è per ora solo un'ipotesi.
- I contributi pubblici sono esclusivamente per filiere costituite in Umbria, che devono rispettare una serie di parametri di ammissibilità, tecnici e finanziari.
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La sostenibilità della tartuficoltura
Il declino della produzione europea di tartufi è da imputare maggiormente alla distruzione degli habitat naturali e delle complesse relazioni ecologiche che i tartufi stabiliscono con gli alberi ospiti, con la flora del sottobosco, e la fauna che dissemina le loro spore. Oltre alla perdita di produttività, la tartuficoltura europea deve confrontarsi sul mercato internazionale con la concorrenza di altri Paesi, quali la Turchia (a quel che pare finanziata dalla stessa Ue! 1), la Cina - principale esportatore del "tartufo low cost" (Tuber indicus) e potenziale futuro concorrente nella produzione di tartufo nero pregiato (Tuber melanosporum, 2) e gli Stati Uniti, nel cui territorio abbondano specie locali di tartufo di potenziale valore gastronomico (3) e dove si coltiva già il tartufo nero pregiato sfruttando le piantagioni di noci pecan (Carya illinoinensis, 4).
Dalla bibliografia si desume che la possibilità di sfruttare la tartuficoltura come alternativa alla silvicoltura convenzionale è presa seriamente in considerazione dalle autorità dei luoghi dove il prezioso fungo può crescere. Ma si può considerare una strategia fattibile? È vero che non servono fertilizzanti, che cresce su terreni abbandonati o comunque marginali? Lo stoccaggio di carbonio è maggiore rispetto ad una coltivazione forestale? Poiché l'informazione bibliografica è dispersa e talvolta contraddittoria, oppure proviene da fonti non imparziali, abbiamo chiesto il parere di Alessandro Balasso, già direttore del Centro Sperimentale per la Tartuficoltura di Porto Viro (Ro), e attualmente del Centro Operativo Polifunzionale di Veneto Agricoltura nella stessa località, il quale ringraziamo per le esaustive spiegazioni.
Ecco ai nostri lettori il riassunto: il tartufo è un fungo ipogeo appartenente alla classe degli ascomiceti e cresce in simbiosi con le radici di una pianta superiore. La simbiosi che si instaura è di tipo mutualistico (entrambi gli organismi traggono vantaggio l'uno dalla presenza dell'altro), si realizza attraverso strutture particolari, dette micorrize, che si formano sugli apici radicali della pianta. I terreni nei quali si sviluppano e maturano i tartufi sono prevalentemente calcarei, con scarso contenuto in argilla, poco azoto e ricchi di potassio. È comunque importante che il terreno sia drenante e che soprattutto non vi siano ristagni d'acqua.
Ci sono diverse specie di piante che possono entrare in simbiosi con il micelio del tartufo. Dobbiamo tener presente che ci sono anche diverse specie di tartufo (nove specie). Il tartufo nero pregiato (Tuber melanosporum) ad esempio contrae simbiosi soprattutto con querce (roverella, rovere, leccio, cerro...), con noccioli e carpini. Sotto i pini in genere si trova il cosiddetto "bianchetto" (Tuber borchii o albidum), questa specie di tartufo predilige terreni sabbiosi; difatti il bianchetto si trova normalmente nelle zone litoranee all'interno delle pinete. Sotto pioppi e salici troviamo di solito il tartufo bianco pregiato (Tuber magnatum), questo predilige ambienti più freschi, umidi e ombreggiati rispetto ai precedenti, difatti lo si trova, almeno nelle nostre zone, nelle golene del Po o lungo i bordi di fossati. Ovviamente ci può essere il doppio utilizzo oltre alla raccolta del tartufo, come il recupero della legna dalla potatura o la raccolta delle nocciole per quanto riguarda la pianta di nocciolo. In linea di massima la pianta che entra prima in produzione è il nocciolo, ma non può essere considerata una regola viste le osservazioni che abbiamo registrato in campo durante gli anni. Il tartufo è sensibilmente soggetto alla distribuzione delle precipitazioni piovose durante l'anno, quindi nelle tartufaie coltivate nei periodi di scarsa piovosità si può intervenire con delle irrigazioni.
È da evitare l'utilizzo di fertilizzanti e diserbanti. Grazie alla simbiosi fra il micelio del fungo e la radice della pianta, quest'ultima cresce meglio anche in condizioni di scarsità d'acqua in quanto l'esteso reticolo di ife fungine nel terreno garantisce una maggior superficie di assorbimento dell'umidità presente oltre all'assorbimento di sali minerali e altre sostanze nutritive utili alla pianta. Dal canto suo il fungo riceve dalla pianta quelle sostanze che da solo non riesce a produrre, come ad esempio gli zuccheri. Sono da evitare il più possibile gli antifungini (a base di zolfo). Il tartufo è pur sempre un prodotto naturale per cui l'utilizzo di sostanze chimiche potrebbe comprometterne la maturazione. Il fatto di disseccare le infestanti alla base dell'albero formando il cosiddetto "pianello" è una caratteristica soprattutto del Nero Pregiato o di Norcia (Tuber melanosporum), in pratica il micelio del tartufo svolge un'azione fitotossica nei confronti di molte erbacee, conferendo un aspetto di area bruciata alla base della pianta (Foto 1). In altre specie di tartufo questo aspetto è molto meno evidente. Alcune piante non sono sensibili all'effetto fitotossico del tartufo, sono le cosiddette "piante compagne". Queste sono spesso associate a quelle produttive al punto che sembrano addirittura favorire la produzione del tartufo in alcuni casi, tanto che lo si rinviene spesso anche sotto tali piante pur non essendo queste micorrizate (ad esempio, il tartufo bianchetto sotto l'asparago selvatico o il biancospino).
Foto 1: "Pianelli" attorno agli alberi di una tartufaia
(Fonte foto: 5)
È consigliabile realizzare una tartufaia coltivata con specie di piante diverse, ad esempio per contrastare o limitare eventuali danni dovuti ad attacchi parassitari monospecifici. Ci sono state annate in cui un parassita (ifantria cunea o bruco americano) che attaccava particolarmente le foglie di nocciolo, ha devastato le chiome di questa pianta. In una tartufaia di soli noccioli i danni sono stati piuttosto rilevanti. Diverse specie di piante garantiscono, inoltre, con la forma della chioma e la diversa altezza, situazioni di ombreggiamento e umidità superficiale del terreno diversificate, conferendo così all'impianto caratteristiche di naturalità tipiche del bosco spontaneo dove in natura si sviluppa il tartufo.
Per quanto riguarda le produttività per ettaro riportate in letteratura, possono essere veritiere. Teniamo sempre presente, però, che la produzione dipende molto dall'andamento stagionale. Ci possono essere annate molto produttive dovute ad una buona distribuzione delle piogge ed annate scarse, soprattutto quelle particolarmente siccitose. Data la nostra esperienza nelle tartufaie coltivate, la percentuale di piante che entra in produzione raramente supera il 50%. Ovviamente questo dipende molto dal terreno, se tutto l'appezzamento ha un terreno omogeneo e particolarmente vocato, la percentuale può essere anche maggiore, ciò avviene soprattutto nelle zone dell'Italia centrale (Umbria, Marche, Toscana). In ogni caso, ai fini della produzione, è molto importante che tutte le piante in una tartufaia coltivata siano ben micorrizate.
Per quanto riguarda la produzione di biomassa a scopo energetico, effettivamente è possibile sfruttare le potature a partire dal secondo-terzo anno. All'inizio si parte con una leggera potatura d'impostazione per portarle poi, nel corso degli anni, ad avere i rami più in basso ad altezza d'uomo. Ciò consente di ottenere una giusta ombreggiatura con conseguente regolare irraggiamento del terreno. Tartufaie troppo in ombra, anche se inizialmente produttive, sono destinate ad esaurirsi in pochi anni; questo ovviamente dipende anche dalla specie di tartufo coltivato.
Conclusioni
La tartuficoltura possiede le caratteristiche necessarie per diventare una forma di agricoltura sostenibile: consente di sfruttare terreni poveri o marginali; non richiede fertilizzanti né fitofarmaci; la domanda idrica è contenuta e limitata solo a eventi siccitosi; si asporta solo la biomassa delle potature e quindi contribuisce allo stoccaggio di carbonio; favorisce la biodiversità piuttosto che la monocoltura e rappresenta un patrimonio culturale e sociale tipico del nostro Paese.
Gli investimenti sono cospicui, i tempi di ritorno lunghi, i guadagni potenzialmente alti, ma è anche alto il rischio. L'iniziativa della Regione Umbria tende precisamente a contenere quest'ultimo, in modo da valorizzare i vantaggi per il territorio. Ci auguriamo che altre regioni seguano l'esempio umbro.
Bibliografia
(1) Fischer, CR., Oliach, D., Bonet, JA., and Colinas, C. 2017. Best Practices for Cultivation of Truffles. Forest Sciences Centre of Catalonia, Solsona, Spain; Yasama Dair Vakif, Antalaya, Turkey. 68pp. ISBN: 978-84-697-8163-0.
(2) Xiaoping Zhang, Xiaolin Li, Lei Ye, Yue Huang, Zongjing Kang, Bo Zhang, Xiaoping Zhang, Colonization by Tuber melanosporum and Tuber indicum affects the growth of Pinus armandii and phoD alkaline phosphatase encoding bacterial community in the rhizosphere, Microbiological Research, Volume 239, 2020, 126520, ISSN 0944-5013.
(3) Trappe, James M.; Molina, Randy; Luoma, Daniel L.; Cázares, Efren; Pilz, David; Smith, Jane E.; Castellano, Michael A.; Miller, Steven L.; Trappe, Matthew J. 2009. Diversity, ecology, and conservation of truffle fungi in forests of the Pacific Northwest. Gen. Tech. Rep. PNW-GTR-772. Portland, OR: U.S.Department of Agriculture, Forest Service, Pacific Northwest Research Station. 194 p.
(4) Benucci G.M.N., Bonito G., Falini L.B., Bencivenga M., Donnini D. (2012) Truffles, Timber, Food, and Fuel: Sustainable Approaches for Multi-cropping Truffles and Economically Important Plants. In: Zambonelli A., Bonito G. (eds) Edible Ectomycorrhizal Mushrooms. Soil Biology, vol 34. Springer, Berlin, Heidelberg.
(5) Streiblová, Eva, Hana Gryndlerová and Milan Gryndler. "Truffle brûlé: an efficient fungal life strategy." FEMS microbiology ecology 80 1 (2012): 1-8 . DOI:10.1111/j.1574-6941.2011.01283.x
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