Nella seconda tornata dei lavori di Agrievolution 2008, viene il momento del confronto in diretta. Alla tavola rotonda gli invitati devono infatti affrontare gli inevitabili antagonismi che contrappongono le differenti economie mondiali: quelle che crescono e quelle che, già ricche, stagnano.
Il preambolo di Friedman non lascia dubbi sul futuro: secondo gli analisti entro il 2020 le potenze mondiali vedranno Cina e India al 1° e 3° posto rispettivamente, mentre gli USA scenderanno al secondo. Infatti, gli USA, insieme alla UE, sono le aree del mondo con il tasso di crescita più basso. La “tempesta perfetta” – come la definisce Friedman – è rinforzata dall’esplosione dei costi dei fattori produttivi e dei prezzi dei prodotti agricoli, esplosione indotta in buona parte dall’aumento di domanda di beni pregiati da parte dell’Estremo Oriente. Domanda d’esordio all’Egitto, rappresentato da Ahmed El Behery: cosa fare per equalizzare l’accesso al cibo, in un Paese che mostra al contempo uno dei più alti tassi di crescita al mondo e una larga fetta della popolazione ancora afflitta dalla fame? Il rappresentante del ministero dell’agricoltura egiziano la prende molto larga: “La rinascita parte nel dopoguerra del 1973 (con Israele, nda). La successiva stabilità politica ha migliorato non solo l’economia nazionale, ma anche i rapporti con altri Paesi. La liberalizzazione delle produzioni agricole e del mercato” – prosegue – “ha finalmente chiuso il capitolo cooperativistico, malamente amministrato sin lì dal governo in stile socialista”. In Egitto c’è un ambizioso programma di estensione della superficie arabile, rubando terre al deserto. Ciò dovrebbe esser reso possibile ottimizzando l’uso della risorsa idrica e delle tecniche di irrigazione. “Un programma parallelo” – aggiunge – “è quello di creare una nuova classe tecnica negli agricoltori, più aggiornata e competente”. Ciò prevede però anche l’acquisizione di nuove tecnologie. Il problema della povertà, in sostanza, è stato generato dal gap tra l’incremento dei prezzi e quello dei salari, ove il secondo è stato molto più contenuto del primo. Sulle bioenergie appare invece contrario: “In Egitto c’è abbastanza sole da sfruttare, per poterci permettere di lasciare le biocrops ad altri Paesi” – sottolinea El Behery. Con buona pace di Alan Friedman, però, una risposta diretta circa la maggiore equità di accesso al cibo in Egitto, sembra restare per il momento nel mondo dei buoni propositi.
Friedman gira la seconda questione all’Europa, infilando il dito nel tema delle produzioni agricole, al momento deficitarie a livello mondiale: Paul Skitte Christoffersen (capo di gabinetto della commissione europea), riassume quindi le recenti espansioni della UE a 27 Paesi. Grazie a questo processo la UE ha oggi il numero di agricoltori circa uguale agli USA. “Per 2 decenni i prezzi dei prodotti agricoli han continuato a calare” – ricorda Christoffersen – “la ripresa di oggi non ha ancora compensato questo calo”. Nonostante ciò, i prezzi non dovrebbero continuare a crescere a lungo: appare ragionevole pensare che finiranno con lo stabilizzarsi prima, per tendere addirittura a decrescere in un prossimo futuro. Per Christoffersen c’è infatti una grande disponibilità di terre coltivabili, anche in Europa: basti pensare al 10% di superfici finora tenute a set-aside. “L’agricoltura dovrà essere sempre più market-oriented, crescendo al rango di vero business” – enfatizza Christoffersen. Sano e saldo concetto, questo, perfettamente in linea con la scelta eurocomunitaria di diminuire i sussidi, ottimizzandone l’utilizzo verso la competitività di mercato. Forse, e finalmente, sarà quindi eliminata la stortura per la quale gli agricoltori venivano sovvenzionati per non coltivare tutta la terra disponibile. Friedman stuzzica ancora Christoffersen, stressando il dibattito sulla posizione di Sarkozi e della Francia, posizione ridimensionata da Christoffersen con una frase lapidaria: “La Francia è solo una delle 27 nazioni EU”. Friedman insiste però su Christoffersen, chiedendo se ancora si pensa che la cooperazione con i Paesi poveri ne potrà mitigare la povertà e potrà contrastare davvero la fame nel mondo. Christoffersen si dice ottimista: la domanda di prodotti agricoli può essere soddisfatta con le importazioni dai Paesi in crescita, a patto che nei rapporti commerciali vi sia stabilità e affidabilità. Il Danese chiede a questo punto quale assicurazioni potrà dare la Russia in futuro, per rendere affidabili le forniture e le importazioni che potrebbero derivare dalla sua crescita interna: Nicolay Sorokin (ministero agricoltura russo) ostenta positività, cercando così di qualificare la Russia come un fornitore affidabile: “L’agricoltura è l’unico settore dell’economia russa ad avere un programma realmente stabilito e condiviso a livello politico” – afferma Sorokin. Nel Paese del Grande Orso vengono attualmente rilasciati agli agricoltori crediti anche a 10 anni. Ci sono richieste enormi di macchinari e altri mezzi tecnici (circa l’80% dei mezzi sono d’importazione). Sulle bioenergie, Sorokin – sostenitore dell’uso dei terreni per il food – ritiene invece che ci siano più spazi nel breve periodo per le materie di scarto, tenendo le produzioni agricole per gli scopi alimentari. I terreni russi ancora incolti verranno lentamente riutilizzati sempre più attivamente. In realtà non risponde in modo esauriente alla provocazione di Christoffersen, ma se la cava benissimo lo stesso. Dagli USA Bruce Knight porta la voce della prima economia (e agricoltura) mondiale: per Knight si è ormai sopopravvissuti alla “tempesta perfetta” citata da Friedman. Si semplifica sempre troppo – a suo parere – il tema della competizione tra superfici a cibo e superfici investite a bioenergia. Grazie alle biotecnologie (unica citazione degli OGM dell’intero summit) si possono alzare le produzioni anche senza aumentare la domanda di ettari. Anche la miglior salute degli animali porterebbe a un incremento delle produzioni, proprio in Paesi che oggi richiedono sempre più proteine. Infine, le pratiche di agricoltura conservativa permettono di risparmiare gasolio, acqua e di preservare i suoli, mantenendone la fertilità. “Il calo del dollaro” – prosegue Knight – “ha indotto forti esportazioni dagli USA”. Ciò ha portato a una correzione dei contributi per il set-aside e ha spinto verso l’alto le richieste alla produzione. E dagli USA giunge a tal proposito una polemica: “Molti Paesi hanno saputo solo focalizzare su singole mosse di protezionismo del proprio export!”. Questo, per l’Americano, ha contribuito alla lievitazione dei prezzi a livello globale. Friedman coglie la palla al balzo e fa subito un esempio: “Se raddoppia il prezzo di una fetta di pizza per l’impiegato newyorkese, in fondo, non succede niente; se raddoppia il prezzo del riso in Egitto c’è chi muore di fame..”. Sentitosi chiamato in causa, l’indiano Ramalingam Paraturam: “Di che food-security parliamo?” – trilla Paraturam – “Non è solo un tema di import-export: è anche tema di aumentare le figure che producono e si autosostentano producendo. La sicurezza non si può quindi legare solo agli stocks, ma anche all’ampiezza e stabilità della piattaforma produttiva”. In India, in effetti, si è ancora ben lungi dall’aver raggiunto una stabilità garantita delle produzioni agricole, né tanto meno della sua crescita programmata. Grande enfasi viene posta da Paraturam anche sulla gestione della risorsa idrica: “Non basta avere l’acqua, bisogna anche gestirla intelligentemente! Anche dove piove non si è organizzati per mantenerne le riserve”. Se però è pur vero che le esportazioni non possono sussistere, quando la domanda interna di cibo sia superiore alla capacità produttiva di un Paese, di sicuro non viene toccato da nessuno il tema delle speculazioni internazionali che a più livelli hanno contribuito a gonfiare i prezzi mondiali dei cereali e delle altre colture primarie per l’alimentazione umana. Dal Brasile, prende la parola Manuel Bertone, segretario del dipartimento per le agroenergie: “La crisi non è davvero una crisi: il futuro sarà certamente migliore. Il problema non è il prezzo del cibo: ci sono risorse, capitali, tecnologie, capacità lavorative”. Questi importanti fattori però – per Bertone – non sono distribuiti in egual misura nel mondo. L’economia mondiale deve quindi aprirsi alla cooperazione – libera – sui mercati. Questo servirà a travasare le rispettive eccellenze e risorse, come in un sistema di vasi comunicanti. L’aumento dei prezzi è quindi per Bertone più parte della soluzione, che del problema. Friedman chiede ai presenti se sono d’accordo, e la risposta è tutt’altro che la medesima: per gli USA - per esempio - l’incremento dei prezzi appartiene invece alla sfera dei problemi. Bertone ribatte però che il miglioramento delle condizioni di vita in Brasile sono alla base della crescita del Paese. “E’ ovvio che se non ho ricchezza per me, non posso certo esportarne” – sbotta il Brasiliano – “Crescendo la ricchezza di ogni Paese, si raggiungerà forse addirittura un eccesso di offerta. Questo farà calare nuovamente i prezzi a livello mondiale”. Anche l’Egitto, aggiungendosi quindi a Russia, India e Brasile, parla di “collasso” se dovesse esportare ciò che produce. Sorokin sottolinea come di tali temi, in condizioni di economia moderna, non si dovrebbe nemmeno porre.
Da un’ottica di sicurezza alimentare, la chiusura alle esportazioni può essere comprensibile solo in un ottica di breve periodo, ma non lo è più sul lungo. La Russia – afferma Sorokin – cerca di aumentare le esportazioni, nonostante la domanda interna sia ancora superiore alla produzione. Per Christoffersen, però, non ci sono ragioni alla base dell’impennata del prezzo del riso: solo la chiusura dell’export da parte dei Paesi produttori ha generato l’aumento. “Una volta la EU esportava zucchero” – esemplifica il Danese – “oggi ne importa. La stessa cosa avverrà per le carni. Ma come possiamo convincere i cittadini che le nostre politiche sui mercati dei prodotti agricoli sono corrette, se poi vediamo delle chiusure all’export di chi ci dovrebbe rifornire di quelle risorse a cui noi rinunciamo?”. In Brasile, a onor del vero, la scelta è stata quella di produrre biocombustibili, ma la disponibilità all’export di bioetanolo è massima.
L’India ribatte però a Christoffersen: “Se si dice che l’India è il Paese col più alto numero di poveri, perché poi si accusano gli indiani di chiudere le esportazioni?”. Friedman chiude la diatriba chiedendo quanto denaro si spende attualmente per NON far produrre. Risponde Kight: “Negli ultimi 20 anni ci sono stati forti cambiamenti. Ora le restrizioni alla produzione sono state eliminate. L’unica restrizione che permane è sulla ‘conservation reserve’ (aree sensibili dal punto di vista ambientale, nda). Il terreno a biocombustibili (mais, negli USA) è aumentato dal 5 al 25%: ha senso dal punto di vista commerciale? Ciò – chiede Friedman – sta arrecando danno al mondo? “Le tecnologie – risponde Knight – hanno fatto raggiungere un delta energetico positivo (output/input, nda) molto più alto rispetto al passato. Inoltre, il mais attualmente avviato alla produzione di bioetenolo, sarebbe da considerarsi dedicato alla zootecnia e non all’alimentazione umana. I sottoprodotti del mais, rimasti in post-produzione del bioetanolo, possono comunque essere avviati all’alimentazione animale. Sulle biomasse il tema è differente: esse non vanno tratte solo da foreste, ma anche dalla spazzatura, e altra energia può essere estratta dagli scarti delle produzioni agricole. I biocombustibili – chiosa Knight –hanno oggi senso solo perché il petrolio è passato da 50 a 120 $/barile. Altrimenti non ne staremmo parlando. E che dire della deforestazione, chiede a questo punto Friedman al Brasile? Bertone afferma che il 47% delle energie utilizzate in Brasile deriva da fonti rinnovabili. Attualmente ben 5 MM di macchine brasiliane viaggiano con etanolo al 100%. “Ciò che il Brasile necessita” – conclude Bertone – “è di poter lavorare in libertà”. Ma Bertone, seguendo lo stile di molti dei suoi colleghi invitati, non risponde affatto alla domanda sulla deforestazione. Friedman si manifesta quindi confuso dal cambio di orientamento EU sul biofuel: prima si, poi no, poi? Per Christoffersen l’esempio del Brasile è concreto: l’uso delle colture produttrici di bioetanolo non ha portato a incrementi del prezzo dello zucchero. La EU deve produrre bioenergie di prima generazione per consentire la produzione di seconda generazione, pur restando consapevole che i costi di produzione per il Brasile sono molto più bassi che per noi. Domanda di Friedman: anche se il bioetanolo brasiliano deriva da aree deforestate? Ancora, nessuna concreta risposta. Christoffersen ricorda solo che le bioenergie non sono solo biofuel ma anche biobasse.
Ultima domanda di Friedman: che tipo di governo mondiale deve guidare questo rinnovamento? Il Brasile si presta al dialogo internazionale, sostenendo innanzitutto la necessità di legislazioni appropriate a livello nazionale. Ma serve essere nel G8? Il Brasile non c’è, nemmeno India e Cina. Che organismo serve quindi” ¬– incalza Firedman – “un G15? Un G20?”. Knight, saggiamente, ricorda che le Nazioni Unite esistono già…
Stando così le cose, non paiono destinati ancora a sciogliersi i nodi della contrapposizione tra produzione o di cibo o di energia: la popolazione crescente del mondo richiede dosi crescenti di entrambe le cose. Solo una produzione massiccia può soddisfare queste richieste. L’ambiente è d’accordo? Ultima provocazione di Friedman: non è ipocrita un occidente che ha creato danni per 2 secoli, con la propria rivoluzione industriale, e ora chiede a India e Cina di non inquinare per la loro di rivoluzione?

Tra queste mille domande, e altrettante risposte parzialmente schivate, speriamo quindi che i nostri nipoti siano in grado di dare una risposta. Nel senso: speriamo che tra 50 anni ci siano ancora nipoti in grado di rispondere…

 

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