Un valore alla produzione di oltre 19,1 miliardi di euro, esportazioni per più di 10 miliardi, un patrimonio culturale che vale il 21% dell'export agroalimentare italiano.
Benvenuti nei numeri - almeno i principali, per un dossier più approfondito la ricerca annuale Ismea-Qualivita saprà esaudire tutte le curiosità - della Dop Economy, l'economia che guarda alle Indicazioni Geografiche, di cui l'Italia, con 882 Dop, Igp, Stg nel mondo dell'agroalimentare e del vino è la prima realtà in Europa, che annovera 3.332 Indicazioni Geografiche.
Un patrimonio che abbraccia, in particolare, la storia, la cucina, l'agricoltura e la produzione di quei Paesi che vantano un legame con il cibo e il vino più radicato, dall'Italia - con la cucina italiana fresca candidata a diventare patrimonio Unesco - alla Francia, dalla Spagna alla Grecia al Portogallo. La rivincita dell'Europa mediterranea, che trae piacere e valore aggiunto da un sistema produttivo che è innanzitutto legato alle tradizioni di cucine territoriali, locali, talvolta persino comunali, prima ancora che nazionali.
Non a caso, ci verrebbe da dire, il primo provvedimento del neo assessore all'Agricoltura della Lombardia, Alessandro Beduschi, ha riguardato il sostegno alle principali Dop e Igp della regione, tenuto conto che l'impatto complessivo della Dop Economy sulla Lombardia si aggira intorno ai 2,18 miliardi di euro (con un peso pari al 16% dell'agroalimentare lombardo) ed è la terza realtà regionale dopo il Veneto (4,81 miliardi) e l'Emilia Romagna (3,6 miliardi).
Per non arrivare alla sbornia dei numeri, meglio porci alcune domande. La prima: l'Italia e i Paesi più avanzati sul fronte delle Indicazioni Geografiche possono rappresentare un modello esportabile nel mondo, al di là del perimetro comunitario, per abbracciare altri prodotti che hanno una loro caratterizzazione specifica sul piano storico, geografico, politico, culturale, valoriale e identificativo?
La risposta non può che essere affermativa. Un tentativo di dialogo era stato portato avanti dall'Unione Europea già nel 2015 (il progetto risaliva a qualche anno prima), nella cornice più ampia dedicata al cibo che era Expo Milano. Una discussione, ricordo all'epoca, orchestrata dall'Unione Europea e molto incentrata sull'esperienza legislativa. Potrebbe essere utile ripescarla, magari per promuovere partendo proprio dalle Indicazioni Geografiche, degli accordi di libero scambio nel settore agroalimentare, chiedendo il rispetto delle regole in chiave di reciprocità, così da garantire parametri particolarmente cari al legislatore di Bruxelles come il benessere animale, i diritti dei lavoratori, il non utilizzo di formulati chimici particolarmente aggressivi e non più ammessi nell'Ue.
Altra domanda, in parte connessa all'export delle Indicazioni Geografiche. È giusto tutelare tutte le Indicazioni Geografiche in elenco oppure limitarsi a un numero meno esteso?
In questo caso sarebbe opportuno scindere il problema. Sul piano teorico è assolutamente doveroso garantire garanzia, protezione, monitoraggio e tutela di tutte le realtà Dop e Igp che hanno raggiunto l'ambìto traguardo della classificazione. Allo stesso tempo, però, c'è da chiedersi se la tutela contro l'agropirateria all'estero di microproduzioni che hanno un consumo prettamente locale può avere un senso pratico.
Oggi l'Europa si sta approcciando a definire un progetto articolato di riforma del sistema Dop e Igp che, come spesso accade quando l'Ue legifera, non sempre è in linea con le aspettative dei produttori che poi, concretamente, fanno vivere l'istituto delle Indicazioni Geografiche.
Fra le obiezioni al sistema c'è la proposta di spostare la delega sulle competenze delle Indicazioni Geografiche dalla Commissione Agricoltura all'Euipo, l'Ufficio dell'Unione Europea per la Proprietà Intellettuale, che ha sede ad Alicante, in Spagna, e che opera secondo logiche scollegate rispetto al mondo dell'agricoltura.
Se c'è una riforma di cui il settore ha bisogno è una maggiore protezione, valorizzazione e sostegno, in particolare per la promozione sicura all'estero, senza contraffazioni di sorta. Ma anche di una maggiore rapidità nell'adottare quelle modifiche dei disciplinari che si rendono necessari per motivi di adattamento a nuovi modelli.
Faccio un esempio concreto. Con l'attuale siccità in alcune aree di produzione dei grandi formaggi Dop potrebbe essere difficoltoso garantire l'approvvigionamento del 50% dei foraggi. Uno scenario simile imporrebbe una deroga al disciplinare. Con quali effetti, se per ogni modifica passano almeno due anni dalla presentazione a Bruxelles? Nel frattempo quale dovrebbe essere la sorte di tali produzioni?
Un appello ai naviganti istituzionali: adottate quelle modifiche che non snaturano le Indicazioni Geografiche, ma le valorizzano, le tutelano, ne favoriscono l'export in maniera protetta. È meglio rilanciare sugli accordi di libero scambio e sostenere politiche in grado di promuovere e diffondere la conoscenza di Dop e Igp, magari raccontandone i percorsi di sostenibilità produttiva, anziché costruire architetture legislative che ingabbiano la potenzialità di prodotti che hanno mostrato di poter giocare un ruolo di utilità per preservare produzioni e tradizioni alimentari.
Come sempre, si accettano suggerimenti. Quali potrebbero essere le misure per una riforma del sistema di Dop e Igp?