Tra i decisori politici, sia a livello europeo che nazionale e regionale, c'è la convinzione che una delle strade per plasmare un'agricoltura più produttiva e sostenibile sia quella dell'innovazione. Per questa ragione ogni anno vengono finanziati numerosi progetti che hanno l'obiettivo di rendere possibile la ricerca di base e quella applicata, nonché lo sviluppo di nuovi prodotti, processi e servizi.

Nei bandi con cui vengono assegnate le risorse è sempre prevista come obbligatoria l'attività di comunicazione dei risultati. Questa può essere rivolta nei confronti di un pubblico generalista, di "non addetti ai lavori". Oppure essere un'attività di disseminazione, rivolta specificamente nei confronti degli agricoltori o comunque di quei soggetti che poi dovrebbero beneficiare delle innovazioni sviluppate con fondi pubblici.

Tuttavia spesso accade che questo travaso di conoscenze non vada a buon fine e l'innovazione, invece di diffondersi tra gli stakeholder, rimanga rinchiusa nei confini di qualche pubblicazione scientifica, di articoli sui giornali o nella sterile documentazione necessaria alla rendicontazione dei progetti stessi.

Per capire quali siano gli ostacoli di questa inefficienza abbiamo intervistato numerosi soggetti tra professori universitari, ricercatori di enti pubblici e privati, aziende agricole e di trasformazione. Sono emersi diversi elementi che concorrono in maniera sinergica a ostacolare il trasferimento tecnologico e che inevitabilmente dovranno essere affrontati per rendere il processo di innovazione più efficiente.

Per semplicità l'articolo è diviso in due paragrafi: uno riguardante il mondo della ricerca e uno quello agricolo. È bene precisare che questo articolo non vuole essere esaustivo del problema e che non si intende esprimere giudizi ma tratteggiare un quadro il più possibile realistico e utile all'avvio di un circolo innovativo virtuoso. In caso di accordo o disaccordo è possibile contattare l'autore a questo link.


Il mondo della ricerca

L'Italia spende meno della media Ue in Ricerca e sviluppo. Siamo all'1,35% del Pil quando la media Ue è superiore al 2% e in cima alla classifica troviamo paesi come la Svezia con il 3,4%. Questo porta le università e i centri di ricerca ad una spasmodica ricerca di finanziamenti che passa anche attraverso la presentazione di progetti a bandi pubblici finanziati con fondi Ue.

Se da un lato tale competizione è positiva, in quanto stimola i vari soggetti a dare il meglio, dall'altro comporta un impegno temporale anche ingente dei ricercatori, alle prese con la redazione di svariati progetti di ricerca, di cui solitamente solo una piccola parte viene approvata. Inoltre la mancanza di finanziamenti strutturali e costanti nel tempo può spingere taluni a presentare progetti con il fine non tanto di sviluppare innovazione utile alle aziende agricole, quanto di ottenere i finanziamenti per poter fare ricerca.

I ricercatori inoltre sono poco incentivati a diffondere i frutti del loro lavoro. Non tanto perché ci sia una reticenza interessata, ma perché la loro carriera è determinata (come è giusto che sia) dal numero di pubblicazioni su riviste scientifiche o di brevetti e non, ad esempio, dal numero di aziende agricole che adottano una certa innovazione o dal numero di partecipanti ad un convegno o prova in campo.

La parte di disseminazione, seppur obbligatoria anche se non di primaria importanza, è percepita in molti casi come un fardello imposto dall'alto come condizione per ricevere i finanziamenti e come tale da espletare con il minor dispendio di energie possibile. Ne deriva una comunicazione spesso fiacca, poco innovativa ed espletata attraverso strumenti che non sempre sono i più adatti a raggiungere davvero gli stakeholder.

D'altronde i ricercatori non hanno una formazione da comunicatori e l'aggiornamento professionale in questo senso viene lasciato molto spesso alla buona volontà dei singoli. Ne risulta che il "wp disseminazione" viene spesso affidato a quel partner che, magari dotato di un ufficio stampa, può svolgere questo compito.

C'è da dire che negli ultimi anni molte università hanno creato al proprio interno dei centri per il trasferimento tecnologico che tuttavia hanno come obiettivo quello di valorizzare dal punto di vista economico la ricerca condotta dall'ateneo, ad esempio vendendo o concedendo in licenza brevetti ad aziende private. E qui bisogna specificare che cosa si intende per innovazione, perché molta innovazione non è direttamente applicabile in campo ma ha bisogno delle aziende agrochimiche, meccaniche, sementiere etc. In questo caso la disseminazione nei confronti degli agricoltori non avrebbe senso, come invece ne ha nel caso di innovazioni di 'crop management' (ambito a cui questo articolo si riferisce primariamente).

Infine occorre ammettere che le aziende agricole, che molto spesso sono partner all'interno del progetto, vengono coinvolte talvolta solo per rispondere ai requisiti dei bandi e non perché davvero da loro parta la richiesta della risoluzione di un problema concreto.


Le aziende agricole

A livello generale possiamo dire che gli agricoltori italiani non sono particolarmente aperti all'innovazione. Questo è dovuto ad una molteplicità di fattori che elenchiamo di seguito.

L'età media di chi guida un'azienda agricola in Italia è molto elevata. Mentre si attendono i dati del nuovo censimento se si guarda a quello del 2010 si scopre che il 16,7% dei capi azienda ha più di 75 anni e il 50% ne ha più di 60. Un dato scoraggiante anche se bisogna tenere presente che l'attitudine all'innovazione non è sempre inversamente proporzionale all'età anagrafica.
 
E se diverse ricerche (come quella di Unioncamere) ci dicono che sempre più aziende agricole sono guidate da giovani, spesso questo avviene solo sulla carta. Un fenomeno dovuto talvolta ad una forma di sudditanza psicologica dei figli nei confronti dei genitori, talvolta semplicemente perché il cambio generazionale è avvenuto a livello burocratico al fine esclusivo di ottenere benefici legati al Psr.

Inoltre non dobbiamo dimenticarci che come tutti i settori economici sovvenzionati anche in quello primario la correlazione tra investimento in innovazione e ritorno economico è talvolta opaca. Per questo motivo gli agricoltori, soprattutto quelli che hanno vissuto i tempi d'oro della Pac, sono meno incentivati ad investire in innovazione.

Se poi molti agricoltori hanno un tecnico di fiducia, remunerato direttamente, tanti altri si rivolgono ai tecnici della rivendita o a quelli delle ditte produttrici di mezzi tecnici. È questa una condizione non ottimale in quanto il tecnico non direttamente retribuito si trova in conflitto di interesse: da un lato dovrebbe fare il bene dell'agricoltore per un vincolo di fiducia, dall'altro ha l'interesse a vendere i prodotti che offrono i maggiori margini o che sponsorizza direttamente.

Si deve poi considerare il tessuto imprenditoriale italiano, fatto di piccole e piccolissime aziende (in media 8 ettari), che spesso non hanno il personale né i capitali per investire in innovazione. Per queste aziende diventa difficile trovare all'interno le competenze necessarie ad innovare e all'esterno il reperimento di figure professionali adeguate non è sempre facile né economico.

Quella del tecnico/consulente (o meglio dell'innovation broker) è una figura intermedia tra mondo della ricerca e mondo agricolo che potrebbe fare da cinghia di trasmissione (i Psr prevedono fondi in tal senso). Ma nonostante ci siano moltissimi tecnici/consulenti preparati e qualificati non sempre però il livello di aggiornamento è adeguato alle richieste degli agricoltori. D'altro canto molti tecnici (come anche i contoterzisti) che propongono soluzioni innovative ai propri clienti spesso non trovano un terreno fertile.
 

Spezzare il circolo vizioso

Dalle considerazioni elencate emergono alcuni degli ostacoli che rendono difficile il passaggio di conoscenze (e delle relative tecnologie innovative) dal mondo della ricerca a quello produttivo. Negli ultimi anni c'è però la percezione che qualcosa si stia muovendo e che sul tema dell'innovazione ci sia una particolare attenzione da parte di tutti gli attori della filiera.

Per dare impulso all'innovazione del settore primario sicuramente una strategia vincente è quella di prevedere dei percorsi di innovazione per quelle aziende agricole definite 'early adopters' che, in caso di risultati positivi, potranno svolgere il ruolo di promotori, convincendo amici e vicini della bontà delle nuove tecnologie.
 
Inoltre la storia ci insegna che spesso l'innovazione, se legata ad una premialità, ad esempio a livello Psr, ha una adozione più veloce (anche se talvolta transitoria). Dunque è auspicabile un rafforzamento del dialogo tra policy maker e ricercatori perché le innovazioni più promettenti siano sostenute.

Un ruolo lo può avere anche il mercato (e già lo sta avendo). Dai consumatori e dalla Gdo c'è una costante richiesta di maggiore sostenibilità e le aziende che vogliono continuare ad essere competitive sul mercato, nolenti o volenti, si dovranno adeguare adottando tecnologie e comportamenti adeguati.

Sarebbe poi auspicabile che, per facilitare la vita dei ricercatori, i bandi prevedessero una selezione a più step (come talvolta accade) e che si possa partecipare al primo vaglio con un testo agile, che non comporti un elevato dispendio di energie. Sarebbe poi bene che all'interno dei progetti di ricerca fossero inserite delle figure specializzate nella disseminazione dei risultati, in modo da sollevare i partner da questa incombenza e ottenere risultati migliori. In questo contesto devono giocare un ruolo primario anche le associazioni di categoria e in generale tutti i corpi intermedi, che possono fungere da cinghia di trasmissione.

I canali di diffusione dei risultati dei progetti dovrebbero essere appropriati all'obiettivo del progetto stesso. Capita spesso che progetti nazionali o internazionali trovino attività di disseminazione solo in microscopici incontri tecnici con pochi partecipanti, oppure in 'introvabili siti internet' o su riviste destinate a poche decine di lettori che, pur essendo funzionali alla rendicontazione dell'attività (e all'erogazione del contributo), non rispondono in alcun modo alle esigenze di divulgazione. Dovrebbero dunque essere indicate già in bando le caratteristiche minime di questi eventi, il numero minimo di visitatori che dovrà avere il sito o il numero minimo di lettori che devono necessariamente avere le testate giornalistiche coinvolte.

D'altro canto, come ci insegna il modello olandese, sarebbe bene che gli agricoltori, aggregati in qualsivoglia forma, fossero i reali promotori e finanziatori dei progetti di ricerca. Solo chi coltiva la terra sa quali sono i problemi reali più impellenti a cui è bene venga trovata una soluzione. E se c'è da cofinanziare la ricerca è indubbio che chi è più motivato si farà avanti.
 
Sarebbe auspicabile poi che la disseminazione avesse come interlocutori privilegiati i tecnici (agronomi, agrotecnici e periti agrari) che potrebbero svolgere il ruolo di collettori di innovazioni (talvolta piccole e isolate) e di intermediari nei confronti delle aziende agricole. In quest'ottica è stato pensato l'aggiornamento professionale obbligatorio, che è spesso tuttavia percepito come una perdita di tempo.

Infine sarebbe utile che il mondo della ricerca, insieme a quello dell'industria e dei servizi, coprisse l'ultimo miglio trasformando la ricerca di base e applicata in prodotti e servizi realmente disponibili sul mercato e, altrettanto importante, user friendly. In altre parole utilizzabili anche da chi non è un tecnico.