Su AgroNotizie abbiamo pubblicato una intervista a Michele Morgante, presidente di Siga (Società italiana di genetica agraria), nella quale spiega le opportunità rappresentate da queste nuove tecniche di miglioramento genetico. Tecniche che, secondo Morgante, se saranno autorizzate in Italia permetteranno di avere viti resistenti alle principali patologie fungine, mais che non temono la siccità o pomodori immuni dai virus. E renderanno le varietà tipiche italiane in grado di adattarsi alle sfide del futuro: produrre di più, con meno, in un ambiente in mutamento a causa dei cambiamenti climatici.
Ma qual è la posizione di chi, come SlowFood, ha fatto della lotta agli Ogm e della tutela delle tipicità italiane il suo cavallo di battaglia? "Non abbiamo alcun pregiudizio verso il miglioramento genetico", spiega ad AgroNotizie Gaetano Pascale, presidente di SlowFood Italia. "Ma occorre molta cautela quando si parla di nuove tecnologie, in particolare di cisgenesi o di genome editing. Ci sono sicuramente alcuni paletti da mettere".
Quali?
"Prima di tutto vogliamo aspettare che la Corte di giustizia europea, investita dal Consiglio di Stato francese, si pronunci e decida se gli organismi ottenuti con queste nuove tecnologie siano da considerarsi Ogm oppure no".
Bruxelles dovrebbe pronunciarsi entro la fine di settembre. Se non dovesse assimilarli agli Ogm non vi schierereste contro?
"Ci sono altre considerazioni da fare. Riteniamo che le innovazioni in agricoltura, quindi anche quelle genetiche, debbano garantire sempre qualità e sicurezza alimentare, tutela della biodiversità e reddito degli agricoltori. Nei decenni passati abbiamo visto che gli Ogm non hanno mai fatto aumentare il reddito delle imprese agricole, che rimangono la parte più debole della filiera. Questo perché la ricerca scientifica è stata condotta da soggetti che hanno come unico obiettivo massimizzare il profitto. Per questo credo che si dovrebbe garantire una facile accessibilità degli agricoltori a eventuali nuovi organismi sviluppati".
Che cosa intende con 'facile accessibilità'?
"Innanzitutto vorremmo che fosse consentito agli agricoltori che da sempre coltivano una determinata varietà di continuare a farlo, senza dover necessariamente ricorrere al pagamento di royalty, solo perché nel frattempo ha subito una modifica genetica. In ogni caso ci sarebbe bisogno su questa materia della vigilanza di un organismo pubblico".
Una sorta di nazionalizzazione dell'innovazione genetica?
"No, nessuna nazionalizzazione. Piuttosto una vigilanza. Non possiamo demandare tutto al mercato. Ci deve essere un controllo pubblico per evitare speculazioni".
E' solo una questione di prezzo?
"Non solo, perché una volta che sdoganiamo queste tecniche chi decide in quali ambiti il miglioramento genetico sarà reso possibile e in quale direzione andrà? Potremmo avere qualcuno che rende il Nebbiolo coltivabile in Sicilia o in Germania. E allora addio specificità territoriali".
Ma la ricerca genetica può aiutare il made in Italy?
"Su questo non ci sono dubbi. Noi non siamo contro l'innovazione quando permette di utilizzare dosi minori di agrofarmaci o di far adattare le specie tipiche del made in Italy ai cambiamenti climatici. Siamo però molto cauti perché l'esperienza ci ha insegnato che certi operatori del settore sono interessati solo al profitto a discapito di tutto il resto".
La competitività del nostro made in Italy si può basare sui prodotti tipici, ma per chi coltiva commodities come frumento, mais o riso?
"L'unica nostra possibilità è quella di caratterizzarci, di distinguerci dal resto del mondo. Non dobbiamo giocare sul prezzo di produzione perché ci sarà sempre qualcuno che produce con costi minori".