Non si sa fino a quando il Governo Monti resterà in carica. Di certo, in questo lasso di tempo, il ministro delle Politiche agricole, Mario Catania, è intenzionato a lasciare il segno, portando a buon fine la 'riforma storica' dei rapporti commerciali all'interno della filiera agroalimentare.
Contratti scritti e tempi certi di pagamento (30 giorni per i prodotti freschi e 60 giorni per le altre categorie merceologiche), sono gli assi portanti dell'ormai famoso articolo 62 della legge sulle liberalizzazioni; l'obiettivo dichiarato, creare le condizioni per consentire agli agricoltori, l'anello più debole della filiera, di riequilibrare la distribuzione del valore aggiunto, attualmente appannaggio soprattutto della grande distribuzione e dell'industria di trasformazione.
Così, in due importanti occasioni, prima al Cibus di Parma, poi all'assemblea di Unaproa, il ministro ha usato termini pesanti per denunciare la situazione antistorica in cui versano le relazioni commerciali del settore agroalimentare.
"Non sono stati fatti sforzi importanti per costruire rapporti nuovi che favorissero la crescita di una filiera più integrata, capace di proporsi in maniera più forte perché in grado di programmare volumi e richieste. Siamo, da questo punto di vista, ancora fermi agli anni ‘60.
Sono disponibile ad accompagnare le imprese in un processo che possa far crescere la relazione tra il mondo agricolo e quello industriale, dove gli agricoltori possano contare su delle certezze sia per quanto riguarda il prezzo che i volumi, lavorando a una sostanziale riduzione delle intermediazioni che sottraggono redditività al lavoro agricolo”.
Scalando di un altro decennio il riferimento storico, lo stesso concetto l'ha ripetuto pochi giorni dopo ai lavori dell'Unione dei produttuori dell'ortofrutta la cui filiera, ha incalzato Catania "è rimasta ferma alla fase del dopoguerra. Ma con questa legge, è finita l'era dei mediatori che sottraggono valore aggiunto all'intera filiera".
Concetti sacrosanti, ma con chi ce l'aveva il ministro? Con i trader della Grande distribuzione, con i responsabili acquisti dell'industria di trasformazione, o con i non meglio identificabili 'rappresentanti' commerciali di un mondo agricolo polverizzato in tante nano-aziende?
Seguendo la logica dei grandi e piccoli numeri, riteniamo che il richiamo forte sia proprio per gli agricoltori e il variegato associazionismo che ne dovrebbe rappresentare il braccio commerciale.
Per spiegare la situazione di oggi, tocca anche a noi fare un breve richiamo storico.
I forti ritardi con cui il mondo agricolo affronta il mercato, affondano le loro radici in quel lungo periodo di aiuti comunitari drogati dalla vecchia Pac, che fissava prezzi garantiti per tutti i prodotti agricoli: chi non trovava acquirenti si rivolgeva a 'mamma Aima', che riempiva i magazzini di grano, carne e latte in polvere.
Gli affari d'oro con queste eccedenze lo facevano poi in grandi trader, ma intanto l'agricoltore incassava il prezzo politico garantito.
Per i prodotti deperibili, invece, ci pensavano i cingoli delle ruspe ad alleggerire i surplus di arance e pomodori.
Certo, quella Pac non c'è più.
Dai prezzi garantiti si è passati negli anni '90 agli aiuti a ettaro e più recentemente agli aiuti disaccoppiati, cioè slegati dalla produzione.
Ora, la parola d'ordine della Pac è cambiata: l'orientamento al mercato delle aziende è il fine, lo sviluppo delle Organizzazione dei produttori il mezzo per raggiungerlo.
Ma su questo fronte, va detto, i progressi dell'agricoltura italiana non sono stati all'altezza della situazione. Organizzazioni professionali troppo ingombranti, gelose del loro monopolio di rappresentanza non hanno mai visto di buon occhio la nascita di associazioni di produttori forti e organizzate. Il gap strutturale dovuto alle dimensioni troppo piccole delle aziende e la scarsa scarsa cultura associativa hanno fatto il resto.
Paradossalmente, è stato proprio quello ortofrutticolo l'unico settore a fare sostanziali passi nella costituzione delle Op, proprio sulla spinta della più moderna Ocm di settore varata da più di un decennio.
Per il resto, senza l'incentivo comunitario, all'orizzonte c'è ben poco.
Esempio emblematico è quello del latte, dove l'aggregazione del prodotto non va oltre il 10% della produzione. Un gap organizzativo che rischia di escludere buona parte degli allevatori italiani dalle nuove regole comunitarie introdotte con il cosiddetto 'pacchetto-latte', che prevede per gli Stati membri la possibilità di imporre l'obbligo di contratti scritti tra allevatori e acquirenti e dare più chance ai rappresentanti agricoli di incidere sulla fissazione dei prezzi. Dal regime delle quote latte alle regole del libero mercato non è un salto da poco
Sono proprie queste debolezze a lasciare vere e proprie praterie ai cosiddetti mediatori. Prendiamo ancora l'ortofrutta: vendere a un mediatore la frutta o gli agrumi quando sono ancora sull'albero è pratica ancora molto diffusa, soprattutto al Sud. Se poi si fa un giro nei grandi mercati ortofrutticoli, anche del Nord, non ci vuol molto a capire che a farla da padroni sono ancora i commissionari, ai quali piccole e grandi aziende danno una delega in bianco sulla politica commerciale e anche sul prezzo.
Poi ci sono la Grande distribuzione e l'industria di trasformazione nei confronti dei quali, senza un'adeguata organizzazione dell'offerta, il mondo agricolo farà sempre fatica ad avere più potere contrattuale.
Lo stesso ministro, per realistica prudenza, ha detto che ci vorranno almeno due o tre anni perché su questa nuova cornice normativa si riesca a realizzare una più evoluta ed efficiente integrazione di filiera.
Attenti, quindi, ad affrettarsi a dichiarare defunto l'albo dei mediatori.
Il presidente della Commissione Agricoltura della Camera, Paolo Russo, ha ammesso che i nuovi obblighi previsti dalla legge sono una "entrata a gamba tesa". Siamo d'accordo con l'onesta affermazione del deputato partenopeo, per questo ci permettiamo di suggerire agli agricoltori di scendere in campo ben allenati alle nuove sfide del mercato: nei campi di calcio, per restare alla metafora, quanto si verificano interventi "a gamba tesa", non si sa mai come va a finire, ma chi corre più rischi di farsi male è il giocatore atleticamente meno preparato.
Per approfondimenti:
'Mercato: il 41% degli agricoltori punta sulle Op'