La filiera olivicolo olearia italiana è ad un bivio: cambiare rapidamente oppure, di questo passo, le produzioni di olio italiane in bottiglia avranno dentro sempre meno olive colte e molite in Italia e, gradualmente, le aziende agricole saranno sempre più fuori mercato, largamente dipendenti dai contributi pubblici, e destinate ad un graduale abbandono della coltura.

Ma c'è una speranza: che la nuova Pac 2023-2027 possa mettere a sistema Ocm Olio e gli incentivi del primo e del secondo pilastro per rilanciare una filiera italiana dal campo alla tavola esaltando le eccellenze dei territori e puntando sull'innovazione del settore olivicolo. È quanto si ricava dalla lettura del rapporto "La Competitività nella filiera olivicola. Analisi della redditività e fattori determinanti" stilato da Rete rurale nazionale e Ismea con il contributo di Mipaaf e cofinanziato dal Piano di sviluppo rurale nazionale 2014-2020.

Il cuore del report è rappresentato da un'indagine campionaria sulla struttura dei costi e dei ricavi delle aziende olivicole italiane, da cui si deduce che i costi di produzione - sia fissi che variabili - sono molto elevati, al punto da rendere già in alcuni areali produttivi il margine operativo lordo negativo, nonostante il prezzo dell'olio e delle olive italiane sia superiore a quello internazionale.
 

La composizione del campione

L'analisi ha riguardato complessivamente 50 aziende olivicole, distribuite territorialmente tenendo conto del peso delle singole regioni sulla produzione nazionale: 22 aziende in Puglia (44% del totale), 14 in Sicilia (28%), 11 in Calabria (22%) e tre in Toscana (6%). L'indagine è stata realizzata nel primo semestre del 2020 mediante interviste dirette, compatibilmente alle problematiche legate all'emergenza Covid-19.

Dal punto di vista della dimensione e della tipologia di oliveto, la Sau media delle aziende intervistate è di circa 26 ettari, mentre la superficie olivetata media è pari a 14,5 ettari, ben superiore alla media nazionale delle statistiche ufficiali (1,6 ettari). E poco meno della metà delle aziende intervistate (46%) ha una superficie coltivata a olivo compresa tra i due e i dieci ettari, il 42% tra i dieci e i 30 ettari, il 12% oltre 30 ettari (solo per le aziende pugliesi e calabresi). Soltanto il 12% delle imprese coltiva esclusivamente olivo, mentre la maggior parte delle aziende intervistate presenta anche altre colture. Le aziende esclusivamente olivicole, diffuse prevalentemente in Puglia, sono equamente suddivise tra le classi dimensionali due-dieci ettari (50%) e oltre dieci ettari (50%).

Per quanto riguarda la tipologia di oliveto, il 46% delle imprese ha un impianto intensivo, caratterizzato cioè da una densità superiore a 250 piante a ettaro, e il restante 54% di tipo tradizionale (meno di 200 piante/ettaro). Nel complesso, le aziende del campione hanno una densità media di impianto di 232 piante/ha. Le aziende hanno una conduzione equamente divisa tra biologico e convenzionale e parimenti sono in buona misura localizzae in pianura e collina bassa, per lo più fuori dalle zone svantaggiate, eccezion fatta per la Calabria. Insomma, un campione di aziende abbastanza solide rispetto alla media nazionale.
 

Rese per ettaro e ricavi

In termini di produttività, le aziende intervistate hanno registrato nella campagna 2019/20 una resa media per ettaro pari a 5.925 chilogrammi di olive, una resa media a pianta di 28 chilogrammi, e una resa in olio delle olive di circa il 16%. Il tempo medio a ettaro impiegato per la gestione complessiva dell'oliveto è di circa 31 giornate.

Il prezzo medio di vendita delle olive è 533 euro/tonnellata, con un intorno che va dai 310 ai 900 euro/tonnellata. Per quanto riguarda l'olio extravergine di oliva, invece, il prezzo medio di vendita è di 4.700 euro/tonnellata, con un valore minimo di 2,80 euro/chilogrammo osservato in un'azienda salentina e uno massimo di 15 euro/litro in Toscana. Analizzando il conto colturale delle aziende intervistate emerge che i ricavi derivanti dalla vendita delle olive e/o dell'olio ammontano in media a 3.828 euro/ettaro.

È la Toscana a registrare il livello di ricavi più basso (mediamente 2.215 euro/ettaro), dato che la campagna produttiva è stata particolarmente penalizzante per quest'areale e quindi si sono avute basse rese ad ettaro. Dopo la Toscana seguono la Puglia (3.170 euro/ettaro), la Calabria (3.602 euro/ettaro), mentre le realtà produttive siciliane sono quelle che evidenziano i ricavi medi più elevati (5.383 euro/ettaro).

Il valore si modifica se nel conto colturale del campione si incorporano anche i contributi pubblici con il ricavo medio che cresce a 4.643 euro/ettaro. Anche in questo caso il valore più basso è osservato in Toscana (2.730 euro/ettaro), seguito dal dato relativo a Puglia (3.813 euro/ettaro), Calabria (4.865 euro/ettaro), sino a quello più elevato della Sicilia (6.183 euro/ettaro).
 

I costi variabili

I costi variabili di produzione nelle imprese intervistate mediamente ammontano a 2.644 euro/ettaro e sono articolati in sei distinte categorie: energia, manodopera, concimi, fitofarmaci, irrigazione e conto terzi. Le aziende siciliane sono quelle che hanno evidenziato i costi variabili più elevati, pari a 4.275 euro/ettaro. In seconda posizione si colloca la Calabria, con 2.577 euro/ettaro, seguita da Puglia (1.819 euro/ettaro) e Toscana (1.329 euro/ettaro).

Quella relativa alla manodopera è la voce che maggiormente incide sul bilancio delle aziende olivicole e nel campione in esame rappresenta in media il 67% dei costi variabili, e copre il 46% dei ricavi di vendita, al netto quindi dei contributi pubblici. E nell'analisi è stato considerato anche il lavoro svolto da manodopera familiare, al quale è stato attribuito lo stesso costo orario di quello salariato.
Anche per questa voce emergono rilevanti differenze tra le varie regioni; in Sicilia la manodopera rappresenta il 70% dei costi variabili e incide per il 55% sui ricavi delle vendite di olive e olio. Nelle aziende pugliesi queste percentuali sono rispettivamente del 69% e del 40%, in Calabria del 60% sui costi variabili e del 43% sui ricavi, in Toscana 58% e 35%.
 

Il margine operativo lordo e i costi fissi

Il margine operativo lordo, dato dalla differenza tra i ricavi di vendita e i costi variabili e al netto dei contributi, è in media di 1.183 euro/ettaro. A livello regionale, il Mol più elevato viene raggiunto dal sistema dell'olivicoltura pugliese (1.351 euro/ettaro), seguito da quello siciliano (1.109 euro/ettaro), da quello calabrese (1.025 euro/ettaro) e da quello toscano (885 euro/ettaro). La maggiore redditività pugliese si deve al ricorso all'irrigazione che consente rese più elevate, a una maggiore spinta verso la meccanizzazione della raccolta che, unita a estensioni mediamente più elevate, facilita le economie di scala.

A premiare le aziende pugliesi è anche l'orientamento prevalente verso la produzione di olive, che mediamente consente un Mol più elevato indotto dal risparmio sui costi di molitura. Considerando nel conteggio anche i contributi pubblici, il margine operativo lordo del campione cresce fino a 1.999 euro/ettaro.

Osservando le singole regioni emerge però una realtà molto diversificata, si va infatti dai redditi operativi "positivi'' delle aziende pugliesi e siciliane (rispettivamente 620 euro/ettaro e 280 euro/ettaro), che evidenziano l'efficienza gestionale delle realtà produttive più strutturate di queste regioni, ai -195 euro/ettaro della Toscana e -214 euro/ettaro delle aziende calabresi.
"In alcuni importanti areali produttivi nazionali - stando all'analisi di questo campione e secondo Rrn e Ismea - si conferma, quindi, la fondamentale importanza del contributo pubblico per tutelare e preservare l'attività olivicola".

L'analisi dei costi fissi delle aziende del campione - costituito in oltre metà dagli ammortamenti, che sono mediamente elevati - restituisce ancor di più una fotografia della variegata olivicoltura nazionale, anche tra le aziende di uno stesso areale produttivo. Se nella media del campione i costi fissi ammontano a 786 euro/ettaro, per le aziende calabresi questa cifra sale a 1.154 euro/ettaro, seguite da quelle toscane (1.077 euro/ettaro), da quelle siciliane (816 euro/ettaro), fino ad arrivare alla situazione più efficiente ed equilibrata delle aziende pugliesi, i cui costi fissi ammontano a 514 euro/ettaro.
 

Il reddito operativo

Il reddito operativo, al netto dei contributi, ottenibile sottraendo al margine operativo lordo l'ammontare dei costi fissi è nella media del campione pari a 397 euro/ettaro. Anche in questo caso, a livello regionale il reddito operativo più elevato è raggiunto dalle aziende pugliesi che arrivano ad assicurare all'imprenditore 806 euro/ettaro, seguite da quelle siciliane (294 euro/ettaro). Per le imprese calabresi e toscane, considerare i costi fissi significa pervenire a un risultato operativo negativo, rispettivamente pari a -130 euro/ettaro e -192 euro/ettaro. Da tenere conto che per la Toscana la produzione 2019 non è stata particolarmente abbondante.
Per queste aziende, la presenza di contributi pubblici assicura un risultato positivo all'imprenditore, infatti, considerandoli, il reddito operativo delle aziende calabresi sale a 1.133 euro/ettaro, quello delle aziende toscane a 324 euro/ettaro; migliora anche il reddito operativo delle aziende pugliesi, salendo a 1.449 euro/ettaro e per quelle siciliane che arrivano a 1.093 euro/ettaro.
 

C'è chi fa di meglio: il modello Andria

Il report a questo punto entra nel merito dei fattori che possono incrementare la redditività e la competitività delle aziende olivicole. E viene fuori un modello vincente, quello di Andria, in Puglia, dove c'è un piccolo ma agguerrito distretto produttivo con aziende olivicole che cedono direttamente le olive e non si caricano così dei costi di molitura. Hanno degli ammortamenti relativamente bassi, quindi una linea dei costi fissi più bassa, e prediligono una olivicoltura intensiva e irrigua: riuscendo così a risparmiare sui costi variabili. Il risultato? Le olive vengono vendute fino a 900 euro/tonnellata. Si tratta di olive di qualità elevata che spesso vengono spedite fuori regione, verso i frantoi del Centro-Nord, aree in cui anche nelle annate di carica la materia prima è deficitaria rispetto alla richiesta e dove l'olio viene valorizzato a un prezzo molto più elevato rispetto al Sud. Il posizionamento strategico di Andria, con un sistema infrastrutturale e logistico unico nel panorama meridionale, rende possibile questo flusso interregionale, "impensabile per una commodity" sottolinea il rapporto. E' del tutto evidente che questo modello ha un punto debole nella bassa capacità del territorio pugliese e più in generale meridionale di saper valorizzare una risorsa come le olive da olio.
 

Olio deve diventare "valore culturale"

Non a caso il rapporto conclude sottolineando come "La strategia futura che potrebbe tradursi in una nuova Ocm olio dovrebbe incidere direttamente sull'intera filiera, dagli oliveti alla trasformazione, con relativa promo-commercializzazione secondo paradigmi di qualità e sostenibilità finalizzata alla sicurezza dell'ambiente e della salute dei cittadini". Secondo Rrn e Ismea "Il nuovo approccio strategico che include anche la valorizzazione del modello "Farm to fork", vuole rispondere alla situazione di crisi del settore, per rilanciarlo nel medio-lungo periodo mediante l'attuazione di interventi e azioni". Ma per fare tutto questo l'obiettivo della politica olivicola deve innanzitutto puntare a "portare l'olio di oliva a diventare un vero prodotto culturale che crei valore per i territori, gli imprenditori e benessere per la collettività europea più in generale, e italiana più in particolare. Tutto questo soprattutto senza perdere di vista quelli che sono gli obiettivi di sviluppo sostenibile del piano di azione di Agenda 2030".