Che l’Italia sia un territorio fragile e bisognoso di particolari cure da un punto di vista idrogeologico non è una novità, così come è da anni evidente e denunciato da più parti che l’approccio politico e amministrativo al problema è stato insufficiente per prevenire decine di eventi catastrofici prevedibilissimi. Si è infatti preferito rincorrere l’emergenza piuttosto che evitarla, spendendo per tamponare i danni più o meno il quadruplo di quanto sarebbe servito per evitarli. Non sta a noi indicare i motivi di certe discutibili scelte, ma decenni di scandali riguardanti mazzette, peculato, fondi neri, appalti truccati e via di seguito, possono senz’altro dare una traccia abbastanza evidente a chi volesse farsi un’opinione propria.

Il punto sulla situazione è stato fatto il 5 febbraio a Roma, quando l'Anbi ha presentato il report “Manutenzione Italia: Consorzi di bonifica in azione per #italiasicura”, il piano 2015 dell’associazione dei consorzi per la riduzione del Rischio Idrogeologico 

Secondo dati del ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio, il 9,8% del territorio italiano è costituito da aree a elevata criticità idrogeologica: si tratta dell’82% dei comuni, dove si stimano a rischio 6.250 scuole, 550 ospedali, circa 500.000 aziende (agricole comprese) e 1.200.000 edifici residenziali e non.
Con riferimento alla popolazione si calcolano 6.154.011 abitanti in aree ad elevata criticità idraulica (dati Ispra) e circa 22 milioni di abitanti su territori a rischio medio.
Un recente studio attesta che l’Italia è il Paese europeo maggiormente interessato da fenomeni franosi: sono state censite 499.511 frane (pari a circa il 70% delle frane mappate in Europa). Secondo stime Ispra, la popolazione esposta a fenomeni franosi in Italia ammonta a 1.001.174 abitanti.
Nel solo 2014 i danni derivati dalle piogge ammonterebbero, secondo indicazioni provenienti da dichiarazioni ufficiali, a oltre 4 miliardi di euro.

Diversi i motivi alla base della fragilità, naturale e indotta del nostro territorio. L’Ispra, in un recente rapporto sull’uso del territorio, ha di nuovo evidenziato le gravi conseguenze della cementificazione e quindi dell’impermeabilizzazione del suolo, che negli ultimi anni ha più che raddoppiato la propria incidenza per abitante rispetto agli anni ’50: da 178 a 369 metri quadrati, con il risultato che il suolo urbanizzato occupa oggi il 7,3% della superficie nazionale (60 anni fa era il 2,9%), ben oltre la media europea, pari al 4,6%. Considerando che l’urbanizzazione avviene poi prevalentemente in pianura, la percentuale si avvicina al 20%. In sostanza sono stati sottratti all’assorbimento naturale della pioggia e all’agricoltura 1,32 milioni di ettari, prevalentemente fra i terreni migliori del punto di vista agricolo.

Si è inoltre verificato un notevole degrado degli ambienti rurali rimasti, in particolare nelle zone di collina e di bassa montagna, con frequente abbandono dell’attività agricola e delle connesse sistemazioni idrauliche con conseguente aumento dell’erosione del suolo. Non vanno inoltre dimenticati lo spopolamento della montagna, i disboscamenti e l’accumulo antropico sulle coste: elementi che incidono in un caso per la mancata presenza dell’uomo, nell’altro per l’eccessiva pressione su risorse quali acqua e suolo.
A tali fattori si è poi unita la variabilità climatica con il conseguente regime di piogge intense e concentrate nello spazio e nel tempo.

Fra il 2010 e il 2012 il costo del dissesto idrogeologico è stato stimato in 7,5 miliardi di euro (in media 2,5 miliardi l’anno), mentre nei 65 anni precedenti era stato, in valore attuale, di 54 miliardi di euro (in media 0,83 miliardi l’anno). Il ministero dell’Ambiente calcolava, nel 2008, che per mettere in sicurezza idrogeologica le zone a maggior rischio del territorio italiano sarebbero stati necessari almeno 40 miliardi di euro in 15 anni. In pratica con le somme spese in risarcimenti e riparazioni dei danni nelle sole località colpite si sarebbe potuta realizzare la difesa dell’intero territorio, abbattendo i costi futuri ed evitando le perdite umane.

Rispetto a tutti i piani proposti da Anbi negli anni precedenti, che hanno riscosso applausi plebiscitari nelle intenzioni e sono stati altrettanto plebiscitariamente ignorati al momento di realizzarli, quello del 2015 mostra una sostanziale coerenza nella filosofia di strutturazione, a partire dal proporre solo interventi immediatamente cantierabili e mirati a risolvere criticità ben individuate. Alla propria lista di interventi Anbi, come ogni anno, affianca una serie di raccomandazioni, tra cui limitare il consumo del suolo attraverso un’apposita norma e inserire la ‘invarianza idraulica’ tra i presupposti della progettazione urbanistica.

La prevenzione dei rischi è un tema chiave per azioni future anche in materia di politica comunitaria di coesione. In tale ambito rientrano i piani per l’attuazione della Direttiva Europea 2007/60: si tratta dei piani di gestione del rischio alluvioni a livello di distretto idrografico, che gli Stati membri devono provvedere ad ultimare e pubblicare entro il 22 giugno 2015.

Il prossimo passo è la messa in pratica delle proposte dell'Anbi. Non sembrano esserci problemi di risorse: con la legge finanziaria 2010 si sarebbe dovuto iniziare a realizzare un programma di prevenzione finanziato da risorse, assegnate per il risanamento ambientale con delibera Cipe, pari a 1.000 milioni di euro. Tali risorse andavano utilizzate attraverso Accordi di programma tra ministero dell’Ambiente e Regioni, che contemplassero il cofinanziamento regionale, definendo la scala di priorità degli interventi. Furono quindi stipulati i succitati Accordi di programma con l’individuazione degli specifici interventi e delle relative priorità, prevedendo un impegno complessivo di 2.097.771.266,00 euro tra finanziamento statale e cofinanziamento regionale. Per ogni Accordo fu nominato un Commissario con il compito di provvedere alla realizzazione degli interventi previsti.

A luglio 2014, mentre l’allora presidente di Anbi, Massimo Gargano, veniva guardato come un alieno per aver sostenuto che le risorse necessarie già c’erano, era stato speso meno del 4% di quanto previsto. Praticamente solo il necessario per mandare avanti i regimi di commissariamento.

Poi qualcosa ha cominciato a muoversi.

Nel giugno 2014 viene istituita presso la Presidenza del Consiglio la Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche, avente il compito specifico di accelerare l’attuazione degli interventi di messa in sicurezza del territorio, di coordinare le azioni di tutte le strutture dello Stato e gli enti operanti nel settore, di supportare la nuova programmazione delle risorse per il ciclo 2014-2020. Per la stessa finalità il cosiddetto “decreto competitività” (decreto legge n. 91 del 2014) ha affidato la responsabilità della realizzazione degli interventi ai presidenti delle Regioni in qualità di “Commissari straordinari delegati”, attribuendo loro importanti poteri sostitutivi e di deroga. Un successivo decreto legge ha reso ordinaria l'attribuzione, ai presidenti di Regione, di funzioni per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico avviando contemporaneamente un procedimento di ricognizione sullo stato di attuazione di tutti gli interventi finanziati anche in data antecedente al 2009 per procedere alla revoca delle risorse economiche non ancora utilizzate e destinarle ad interventi altrettanto urgenti, ma immediatamente cantierabili. L’obbiettivo è stato quello di trasformare in cantieri oltre 2 miliardi di euro non spesi dal 1998 per ridurre situazioni di emergenza territoriale.
 
È questa la prima volta che l’Italia sul tema del contrasto al rischio idrogeologico fa un salto di qualità e investe sulla salvaguardia del territorio e sulla prevenzione, anziché concentrarsi sull’intervento in fase di emergenza.

Da giugno a dicembre 2014, in tutta Italia, sono stati aperti 450 cantieri per circa 700 milioni di euro in lavori finalizzati alla prevenzione del rischio idrogeologico. Finalmente esiste oggi un database chiaro di ciò che serve all’Italia per ridurre i suoi immensi rischi di frane e alluvioni. Le Regioni, con le Autorità di bacino e la Protezione civile, hanno peraltro indicato la necessità di circa 5200 opere per un fabbisogno di 19 miliardi di euro.
Contemporaneamente la Struttura di missione presso Palazzo Chigi ha raccolto, insieme al ministero dell'Ambiente, le proposte regionali per due piani: il Piano nazionale per la difesa del suolo 2014-2020 (risorse tra i 7 ed i 9 miliardi di euro) e il Piano stralcio destinato alle aree metropolitane. Per il Piano nazionale, le proposte giunte dalle Regioni ammontano a una spesa di 16.357 milioni, di cui 875 milioni con progettazione esecutiva e 2.029 milioni con progettazione definitiva: ci sono quindi interventi per circa 2,9 miliardi di euro, cantierabili in tempi brevi se e appena il Piano avrà il via libera.
Il 20 novembre 2014 è stato inoltre presentato a Palazzo Chigi il primo stralcio del piano triennale 2014-2020: oltre un miliardo di euro destinato a interventi per la sicurezza nelle città e aree metropolitane.
 
Per quanto concerne l’aspetto finanziario, il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, ha evidenziato che l'azione del Governo segue due linee di intervento: il recupero di risorse assegnate a partire dal 1998, finalizzate al dissesto idrogeologico e non ancora utilizzate e la programmazione di nuove risorse a valere sul ciclo del Fondo per lo sviluppo e la coesione 2014-2020.

Ci sarebbero poi 4 miliardi per l’occupazione sostenibile che i Consorzi di bonifica, fuori dal Patto di stabilità ed in collaborazione ad esempio con locali cooperative di lavoro, sono disponibili ad investire sulla montagna, la cui fragilità è in continua crescita.
Gli stessi enti consortili sono anche pronti ad assumersi la responsabilità di colmare il vuoto istituzionale ed operativo, che l’abolizione di Province e Comunità montane ha determinato.

Nel 2015 gli interventi proposti da Anbi sono 3.335, per un importo complessivo di 8,4 miliardi di euro, e riguardano in prevalenza quelle azioni che non rientrano in azioni ordinarie, cui si fa fronte con i contributi dei privati: si tratta di manutenzioni straordinarie delle opere di bonifica, di sistemazione e regolazione idrauliche, di ripristino di fenomeni di dissesto idrogeologico.

Le istituzioni sono dunque uscite dal letargo? Si direbbe di sì, almeno per quanto riguarda quella manciata di miliardi già stanziati e mai spesi. Ma per portare avanti un piano organico e concreto bisogna mettere sul tavolo ben altre cifre, anche perché un piano serio non si esaurirà con la conclusione degli interventi già previsti, ma diverrà una spesa "strutturale" per l’intero Paese.
Si ventila dunque l’ipotesi di una tassa di scopo. Se così fosse sarebbe forse una delle poche che i cittadini pagherebbero volentieri. Non prima però di aver avuto abbondanti e ripetute prove che, in tema di tutela e prevenzione territoriale, i movimenti delle istituzioni nell’ultimo anno siano veramente il sintomo di un risveglio da un letargo decennale. E non il solito girarsi sotto le coperte.