La riforma della Pac? Il meglio del possibile, che non significa il meglio in assoluto, ma rispetto alla prima bozza della Commissione, sono state fatte molte conquiste”.
Parola di Paolo Bruni, il cavaliere dell’agroalimentare, che la proposta iniziale del commissario Ciolos e le fasi iniziali del dibattito le visse molto da vicino, come presidente del Cogeca, l’organizzazione che rappresenta le cooperative agroalimentari europee.

Oggi che Bruni è al vertice del Centro servizi ortofrutticoli (Cso), della Pac che quasi sicuramente non accompagnerà i cittadini e gli agricoltori europei fino al 2020, dal momento che sembra fissata una revisione nel 2017, dice con un piglio di realismo che “è stato comunque raddrizzato il tiro rispetto a come era partita”.
A Milano, a margine della conferenza di presentazione della manifestazione “TuberFood”, evento dedicato al tartufo che accompagnerà Borgofranco sul Po (Mantova) per i weekend di ottobre, gli abbiamo rivolto alcune domande sulla Pac.

Presidente Bruni, dal suo osservatorio privilegiato del Cso, come giudica la riforma sul versante delle opportunità per l’ortofrutta?
“Sul settore ortofrutticolo, rimanendo il concetto delle Organizzazioni dei produttori, viene confermato il cardine su cui lavorare per sviluppare questo settore. Come ho detto in altre occasioni l’ortofrutta non è musica per solisti, ma è musica per orchestre e le Organizzazioni di produttori permettono di mettere insieme la massa critica nazionale di 26 milioni di tonnellate: se non ci aggreghiamo non possiamo pensare di conquistare i mercati lontani, vera sfida del futuro. Non dimentichiamo infatti che rispetto ai consumi nazionali, ci sono due terzi dei nostri prodotti che devono uscire dai confini italiani. Le Organizzazioni dei produttori interpretano questo bisogno, pertanto do un giudizio positivo per questo aspetto della riforma della Pac”.

Gli Stati membri ora dovranno impostare le politiche di sviluppo rurale. Secondo lei è meglio la soluzione fin qui adottata dei Piani di sviluppo rurale regionali, di un Piano nazionale o di coordinamenti dei Psr per territori omogenei?
“Pur essendo ferrarese e romagnolo sono un nazionalista convinto. Credo quindi che tutto ciò che si fa insieme, dia valore a quel brand che è il made in Italy. Non dimentichiamo mai che stiamo parlando del terzo marchio dopo la Visa e la Coca Cola. Ritengo che la strada più corretta da percorrere sia quella di unire le forze delle nostre Regioni, pur senza toglier nulla al localismo, ma rafforzando al contrario le singole realtà”.

Quali suggerimenti ha per la figura dell’agricoltore attivo?
“La definizione non spetta a me. Ma si può riconoscere che anche su questo versante è stato fatto un passo in avanti. Naturalmente sappiamo che non sono mai le norme da sole a dare efficacia ed efficienza ad un settore. Si è cercato di interpretare un concetto e di poter distinguere chi fa l’agricoltore di professione da chi lo fa a tempo libero.
I criteri per giudicare l’agricoltore attivo è chiaro che non possono essere riconducibili alla manualità del medesimo, ma alla sua dedizione all’attività. Chi, quindi, in un momento come questo in cui ci sarà sempre più bisogno di cibo mette a frutto il proprio ingegno per far sì che quella terra produca per il futuro del cibo, credo che renda un servizio all’umanità”.