Dopo una valanga di emendamenti sulla riforma Pac, metabolizzati dalla Plenaria dell'Europarlamento di metà febbraio sotto la sua sapiente regìa, il presidente della Commissione Agricoltura, Paolo De Castro, affronta il tour de force del cosiddetto trilogo, partito la scorsa settimana.
In tasca ha la delega per sedersi al tavolo dove si confronterà con il ministro irlandese Simon Coveney, presidente di turno del Consiglio agricolo e il commissario all'Agricoltura, Dacian Ciolos, per cercare un compromesso sul "rivoluzionario" assetto dei meccanismi di sostegno all'agricoltura europea fino al 2020.

Un'esperienza inedita in 50 anni di Pac, visto che per la prima volta, in base al trattato di Lisbona, il Parlamento europeo ha assunto un ruolo di codecisione. Una prima volta anche per un politico di lungo corso come lui, con un'esperienza quasi ventennale di maratone agricole che ne hanno irrobustito la capacità negoziale: due volte ministro dell'Agricoltura e per cinque anni stretto collaboratore come "esperto agricolo" di Romano Prodi, quando era al vertice della Commissione Ue.

Presidente, possiamo fare il punto su quali basi parte il tavolo del trilogo?
"Siamo arrivati alla fase conclusiva della definizione della Politica agricola comune post 2015. Dopo il mandato negoziale ricevuto dal Parlamento e dal Consiglio, si è aperta lo scorso 11 aprile la fase dei triloghi che vedono a confronto le tre istituzioni europee - Parlamento, Consiglio, Commissione - sui singoli articoli del testo legislativo.
Il lavoro compiuto nell’ultimo anno dalla Commissione Agricoltura dell'Europarlamento ha sostanzialmente modificato la proposta della Commissione Ue, semplificandola, rimettendo al centro il lavoro e l’impresa e coniugando in maniera efficace sostenibilità economico-sociale e ambiente.
La proposta del Consiglio agricolo Ue in parte riprende questa impostazione, ma su alcuni capitoli importanti, con particolare riferimento al dossier sull’Ocm unica, si è mostrata molto meno incisiva rispetto al Parlamento. Quello che è appena iniziato sarà dunque un confronto impegnativo che, confidiamo entro giugno, ci porterà alla definizione di un accordo politico".


Facciamo il gioco della torre. Qual è la proposta tra quelle fin qui presentate sulla quale il Parlamento è pronto a porre il veto?
"Non si tratta di porre o meno il veto, ma piuttosto di creare condivisione all’interno del negoziato su alcune tematiche che per il Parlamento sono irrinunciabili. Il riferimento è a tutti quegli elementi che abbiamo introdotto per consentire la definizione di una Politica agricola comune più verde, semplice, flessibile e che rimetta al centro dei suoi obiettivi futuri l’impresa e il lavoro.
Certamente, su alcune questioni più politiche, come ad esempio una maggiore trasparenza all’interno della Pac, evitare più finanziamenti per il raggiungimento degli stessi obiettivi, la salvaguardia del ricambio generazionale in agricoltura o su tutte le altre tematiche sulle quali il Parlamento ha votato a larghissima maggioranza, difficilmente si cederà all’interno del negoziato".    


Al contrario, quale emendamento del Parlamento ritiene più importante, da difendere fino all'ultimo voto?
"Durante il trilogo non ci sono votazioni, ma si lavora articolo per articolo per trovare un compromesso con i ministri europei rappresentati dalla Presidenza di turno irlandese (almeno fino a fine giugno). Al di là dei tecnicismi, ripeto, tutte le questioni prima elencate rappresentano condizioni essenziali per il Parlamento, soprattutto quelle votate da una maggioranza molto consistente. Voglio ricordare, infatti, che a differenza di quanto accaduto in altri provvedimenti, come ad esempio il “pacchetto latte” o il regolamento sui regimi di qualità alimentare, dove abbiamo negoziato con il Consiglio in virtù di un testo votato in Commissione, per la riforma della Pac siamo depositari di un mandato che ci è stato conferito dalla Plenaria. Abbiamo anche rischiato di veder compromesso il lavoro fatto in Commissione ma, adesso, siamo forti di un mandato pieno da far valere sul tavolo negoziale".

Per giustificare i finanziamenti all'agricoltura, si è sempre parlato dei "beni pubblici" forniti alla collettività dagli agricoltori. Poi è spuntato il greening. Lei ritiene che ci sia un nesso reale tra produzione di public goods e la diversificazione produttiva più qualche muretto a secco, o è solo una tassa ambientale da far pagare alle aziende più grandi?
"La 'componente ambientale' è imprescindibile nella definizione della politica agricola europea dei prossimi anni.
E’ evidente, però, che questa dimensione deve lavorare in sinergia con la dimensione economica e sociale dell’agricoltura stessa in un equilibrio assente nella proposta Ciolos, sbilanciata proprio sul fronte ambientale e poco sul sostegno al lavoro e all’impresa.
Un’impostazione che avrebbe certamente reso più difficile l’attività degli agricoltori, il controllo applicativo delle norme, con benefici complessivi non necessariamente rispondenti al grado di complessità delle misure previste. Con il lavoro portato avanti in Parlamento dalla Commissione Agricoltura, siamo intervenuti proprio per riequilibrare questi aspetti, definendo una politica realmente rispondente alle esigenze degli agricoltori europei, che semplifica e rende maggiormente flessibili le misure previste, in un’ottica di sostegno concreto al settore".


Il Parlamento europeo ha sempre detto: niente riforma se prima non si decide il budget. Poi la proposta, con non pochi tagli, è arrivata e l'aula di Strasburgo l'ha bocciata. Quella pregiudiziale vale ancora o è superata?
"Vale ancora, la posizione del Parlamento è ferma. Abbiamo chiesto ai capi di Stato e di governo di lavorare affinché vengano introdotti dei margini di flessibilità tra i diversi capitoli del bilancio pluriennale dell’Unione e che si preveda una revisione dello stesso bilancio dopo due anni.
L’accordo siglato lo scorso febbraio ha rappresentato una delle pagine più brutte dell’Unione, con un bilancio per la prima volta in perdita. La posizione del Parlamento, lo ribadisco, è ferma su questo punto. Seppur nella difficilissima congiuntura economica in cui ci troviamo, l’Europa ha bisogno di politiche che superino l’austerity e investano nella crescita e nello sviluppo".


Si tolga per un attimo la casacca presidenziale e parliamo dell'agricoltura italiana. Quali sono i punti critici che rischiano di aver un impatto più pesante sulla nostra agricoltura?
"L’agricoltura italiana e, allargando il ragionamento, l’intero settore agroalimentare nazionale rappresentano un potenziale incredibile per l’economia del nostro paese. Un settore che, nel 2012, ha realizzato con l’export un valore di 32 miliardi di euro e che ha ancora importanti prospettive di crescita.
Certo, l’Italia purtroppo si distingue non positivamente per una sostanziale disaggregazione delle imprese, manca una rete, un sistema di promozione e presenza sui mercati esteri organizzato che sia realmente competitivo. Sarebbe opportuno lavorare con impegno in questa direzione, destinando risorse e studiando strumenti ad hoc per le realtà produttive, rendendo finalmente il made in Italy agroalimentare capace di trovare il giusto riconoscimento internazionale". 


Ritiene che la situazione di vuoto politico che affligge il nostro Paese possa indebolire la delegazione italiana in questa fase cruciale del negoziato?
"Questo rischio c’è. Ed è molto grave perché la partita sul tavolo è decisiva e l’Italia ha un ruolo centrale in questa fase negoziale. Sul fronte europeo, in Parlamento, abbiamo spostato la prospettiva della riforma della Pac in un’ottica più mediterranea, valorizzando l’agricoltura di questi paesi e ‘correggendo’ l’impostazione più ‘nordica’ della proposta Ciolos.
La posizione del Consiglio Ue però, in alcuni punti, sembra voler fare ritorno a quella visione. Per questa ragione, adesso serve una presenza forte proprio dei paesi mediterranei, Italia in primis, per chiudere con successo questa fase decisiva".


Per il vino ci sono buone chance di salvare i diritti di impianto. E le quote latte? La loro abolizione costerà cara, in termini di competitività, agli allevatori italiani. Capisco l'imbarazzo per come sono state gestite, ma se ci fossero le condizioni (turandosi il naso!), se la sentirebbe di provarci ancora, come fece con la "banda dei quattro" al negoziato su Agenda 2000 per avere allora più quote latte per l'Italia?
"Per quanto riguarda le quote latte, non esistono ad oggi le possibilità concrete di riaprire il negoziato sulla loro cessazione dopo la campagna 2015. Non ci sono infatti proposte sul tavolo in tal senso. Il ragionamento da farsi è invece, a mio avviso, sul periodo post-quote produttive.
In tal senso, il Parlamento europeo, con il collega Dantin, relatore per la nuova Organizzazione comune dei mercati, ha introdotto una proposta che autorizzerebbe l’esecutivo, in caso di crisi prolungata e attraverso un sistema d’incentivi, a consentire il ritiro di parte della produzione dal mercato. Si tratta di una prima ipotesi che, al di là della sua efficacia, può aprire la discussione per affrontare nel negoziato uno dei temi più importanti e strategici dei prossimi anni".   


Grazie presidente De Castro, e buon trilogo.