Eppure per chi si occupa di climatologia è normale, da quando nel 2008 è uscito il libro scritto dal docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, il cui sottotitolo, infatti, era Errori e leggende sul clima che cambia.
L’ultimo libro dato alle stampe, invece, si intitola Imparare dalle catastrofi. Guida galattica per sopravvivere al futuro, Altreconomia editore, postfazione di Luca Mercalli.
Un volume scritto con Enrico Euli, un ricercatore di Didattica all’Università di Cagliari, che ha insegnato Metodologie e tecniche del gioco, del lavoro di gruppo e dell’animazione.
Nelle 160 pagine realizzate a quattro mani, il clima è uno degli aspetti delle cosiddette catastrofi, un macroinsieme nel quale rientrano un po’ tutti i mali della società attuale, cioè la crisi e i suoi tristi compagni di viaggio con i nomi di collasso, choc, default.
Per restare in tema si parla anche di siccità, del clima e dei portafogli, ma non solo. “La crisi è intesa anche come opportunità, strumento per ripensare e ripensarsi, come nel teatro greco”.
Professor Caserini, nel 2011, durante il Festivaletteratura di Mantova, lei disse “nessun catastrofismo". A livello mondiale c’è stata una crescita di 0,8°C, rispetto ai 150 anni precedenti. L’Italia se la passa peggio, con una crescita di 1,5 gradi: il doppio. E le previsioni di riscaldamento globale, di qui a fine secolo, oscillano fra i 2,5 e i 4 gradi, cioè più del doppio della crescita di temperatura registrata fra il 1850 e il Duemila.
Dobbiamo allarmarci?
“Le previsioni di due anni fa sono tuttora valide. Ma non bisogna confondere il termine catastrofe con eventi holliwoodiani, da Alba del giorno dopo. Di certo negli ultimi tre secoli abbiamo registrato cambiamenti come mai nei diecimila anni precedenti, e ancora di più cambierà il pianeta nei prossimi secoli”.
Ad esempio?
“Tre secoli fa le terre emerse non erano poi molto diverse da oggi, ma un aumento di tre-quattro metri del livello del mare, che potrebbe avvenire nei prossimi tre secoli, è molto preoccupante. E anche se non verrà percepito come catastrofico, cambierà la faccia di molte zone costiere”.
Secondo lei serve una svolta?
“Certamente. Il ruolo della scienza è diverso da quello della società. La scienza non dice se dobbiamo evitare la catastrofe, ma illustra cosa succede in determinate condizioni. Se queste conseguenza fanno paura, se abbiamo a cuore la sorte delle persone più povere, allora bisogna che i cittadini si attivino per un cambiamento”.
L’Unione europea invitò gli Stati membri a predisporre piani di adattamento al cambiamento climatico. L’Italia, nel 2011, rimase immobile. È cambiato qualcosa?
“Sì, negli ultimi due anni l’Italia si è mossa per definire la strategia di adattamento ai cambiamenti climatici. Il governo Monti non l’ha concluso, però sono partiti diversi gruppi di lavoro”.
Insomma, c’è ancora molto da fare...
“Assolutamente, ma non siamo più all’anno zero. Dobbiamo definire le priorità, ma vediamo il bicchiere mezzo pieno, anche se di decisioni politiche che possono avere ricadute a livello amministrativo ancora non ce ne sono. Sarà uno dei compiti di questo governo fare decollare le attività sui cambiamenti climatici”.
Allarghiamo l’obiettivo. Lo scorso dicembre, a Doha, si è chiusa la Conferenza delle parti della Convenzione sul clima. Con quale esito, secondo il suo parere?
“Non è stato un fallimento completo. Ma nemmeno un successo, che in verità non era affatto atteso. Secondo me, le elite globali hanno già ora chiaro che converrebbe ridurre le emissioni, se non lo fanno è perché anche altri interessi, oltre a quelli che dicono di rappresentare, contano: i poteri dell’industria fossile sono molto forti e paralizzanti. Il Senato USA docet…”.
È la messa in pratica che incontra difficoltà.
“Sicuramente c’è molto da fare e questo è un momento critico. Passare da dichiarazioni di principio a impegni ad accordi vincolanti fra i diversi Paesi, innalzando il livello di ambizione. L’Europa ha obiettivi al 2020, ha una road map al 2050. Sul fronte opposto, invece, vi sono importanti realtà industrializzate come Giappone, Canada e Stati Uniti che non hanno ancora tradotto gli obiettivi declamati in impegni ben delineati”.
Veniamo al comparto primario. Secondo lei l’agricoltura si è accorta di questi cambiamenti?
“L’agricoltura dovrà cambiare per sopravvivere. Pensiamo ad alcune aree in Italia, come la Pianura padana, dove incombono sfide importanti, come la riduzione dei gas serra da parte dell’allevamento e dell’agricoltura, riducendo drasticamente le emissioni di metano e protossido di azoto. Contemporaneamente, la gestione delle risorse idriche è fondamentale nei momenti in cui il clima cambierà l’assetto delle falde acquifere. Vi sono casi in cui è bene mantenere elevata la soglia di attenzione, senza allarmarsi, ma senza sottovalutare i fenomeni in atto”.
Come nel caso dell’Emilia-Romagna?
“Sì. Cito direttamente dall’analisi di Federico Grazzini e William Pratizzoli, dell’Arpa Emilia-Romanga, pubblicata sul sito www.climalteranti.it, un sito/blog del quale sono coordinatore del comitato scientifico. I dati dell’estate 2012 mostrano come esista un intreccio fra la scarsità di precipitazione e il ripetersi di ondate di calore, ma anche una sorta di reazione a catena che porta l’atmosfera in condizioni sempre meno favorevoli ai temporali estivi. Se questo comportamento dovesse proseguire, come peraltro indicato negli scenari di cambiamento climatico per la zona Mediterranea, gli impatti sull’agricoltura in pianura padana potrebbero essere pesanti”.
Rispetto all’estate del 2003, quali sono state le differenze?
“Le anomalie del 2003 furono più estese perché dovute ad una eccezionale anomalia meteorologica a scala europea, mentre quelle del 2012, in alcune zone comparabili per ampiezza, mostrano un maggiore dettaglio spaziale che sembra essere in relazione con il contenuto di acqua nel terreno”.
Da lodigiano, quali raccomandazioni si sente di fare per l’agricoltura padana e italiana?
“Affrontare il problema dei cambiamenti climatici, muovendosi subito. E soprattutto, smettere di far finta che il problema dei cambiamenti climatici non esista. Non ho indicazioni specifiche per l’agricoltura padana o italiana, anche perché le caratteristiche dei territori sono diverse e ogni realtà territoriale dovrà trovare la propria strategia. Il problema c’è ed è molto importante, potrebbe anche essere grave”.
James Lovelock, lo scienziato autore dell’ipotesi Gaia, insiste sull’energia nucleare e sull’abbandono delle rinnovabili. Concorda?
“Lovelock ha 94 anni. Rispettiamo l’età e la posizione dello scienziato, ma abbiamo visto che la sua teoria di Gaia non stava in piedi: presupponeva meccanismi autoregolatori del pianeta che mantenevano la vita sulla terra entro fasce di sicurezza. Questo non è vero e i cambiamenti climatici dimostrano il contrario, ci sono stati anche cambiamenti bruschi e altri potrebbero essercene. Dunque, la teoria di Gaia non regge, l’uomo può modificare pesantemente il clima del pianeta. Inoltre Lovelock non è un esperto di strategie energetiche, mentre al contrario gli esperti del settore non riconoscono al nucleare un ruolo rilevante nella mitigazione dei cambiamenti climatici. Non sarà il nucleare a risolvere il problema del clima”.
Saranno le rinnovabili a salvarci dal clima?
“Sono indispensabili, se si vogliono ridurre di molto le emissioni e sviluppare velocemente un altro sistema energetico basato su principi come la decarbonizzazione delle energie e la cattura del carbonio. Oggi le rinnovabili sono ancora poco presenti e mostrano potenzialità di aumento molto significative. Naturalmente se ci saranno opportuni incentivi”.
Incentivi che già ci sono e che hanno scatenato alcune polemiche per l’eccessivo peso sulla bolletta…
“E’ vero, ma non dimentichiamo che in passato anche il combustibili fossili furono sostenuti. Chiaramente si potevano coordinare meglio gli incentivi, che invece sono stati dati in modo schizofrenico, prima elargiti in maniera eccessiva, poi tolti”.
Tiriamo una volata al suo ultimo libro, che parla anche degli orsi polari e delle nuove rotte commerciali artiche. Due facce del cambiamento climatico.
“Sì, la dinamica sui ghiacci artici è già in atto. Nel giro di pochi decenni avremo estati artiche senza ghiaccio marino, con molte conseguenza. Sulla sopravvivenza degli orsi polari, ad esempio, mentre altre sono ad oggi meno nitide.
La diminuzione o l’assenza del ghiaccio artico avrà effetti anche sul riscaldamento globale del pianeta.
E poi ci sono alcune conseguenze apparentemente positive, come la possibilità di sfruttare rotte commerciali passando per il Polo Nord o per l’estrazione petrolifera.
Ma la domanda sarà: e se vi saranno fuoriuscite di greggio nel circolo polare artico?
Ecco, a volte non si vuole vedere quello che succede, invece potrebbe essere un modo per cambiare e vedere che il cambiamento in sé offre alcune opportunità, ma devono essere governate”.