Nella Giornata Mondiale dell'Ambiente che si è celebrata lo scorso 5 giugno, a leggere che nell'ultimo anno - secondo il Rapporto Ispra - ci siamo "mangiati" un territorio grande come il comune di Mantova (che è la mia città, perdonate il riferimento personale) o di Pavia, cioè un'estensione di 6.334 ettari, e che la media del consumo di suolo in Italia per strade e costruzioni nel 2021 è arrivata al 7,13% contro una media Ue del 4,2%, mi torna alla mente una delle pratiche che più mi affascina: il vertical farming, l'agricoltura verticale di cui abbiamo parlato più volte.

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È un tema, confesso, che mi ha sempre sedotto. Nel 2007 intervistai uno dei "papà" dell'agricoltura verticale, il professor Dickson Despommier della Columbia University, cercando di penetrare in un mondo che consideravo allora e considero tuttora all'avanguardia. Di certo un sistema perfettibile e con alcuni aspetti sui quali concentrare la ricerca, a partire da due grandi questioni aperte: la manodopera (che manca e che potrebbe essere sostituita da soluzioni robotizzate) e il consumo di energia elettrica (che è elevato, ma che può essere ridotto anche del 50% e, comunque, provenire da fonti rinnovabili).

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Così, e scusate un'altra divagazione di carattere personale, vi lascio immaginare la sorpresa quando in maniera del tutto fortuita mi imbattei in una realtà di vertical farming (più specificatamente, si trattava di una "mini-Pfals", acronimo che sta per Plant Factories with Artificial Lights, vale a dire fabbriche per la produzione di piante con luce vegetale, con una dimensione "mini", cioè compresa fra i 3 e i 30 metri cubi) all'undicesimo piano di un centro commerciale a Ginza, uno dei quartieri più conosciuti di Tokyo, che riforniva di insalata il ristorante al piano superiore. Altroché chilometro zero!

 

Le vertical farm salveranno il mondo? Certo che no, ma potrebbero contribuire a diversificare il modello produttivo esistente e offrire soluzioni utili per produrre nei centri urbani, all'interno di metropoli o megalopoli, ad avvicinare i giovani delle scuole, gli anziani nelle case di riposo, i malati negli ospedali a cimentarsi in attività utili e produrre una parte di cibo per consumarlo localmente. Trattandosi perlopiù di insalate, spezie, funghi, si tratta di integrazioni alla dieta alimentare.

 

L'obiettivo è quello di poter ampliare la gamma produttiva, migliorare l'efficienza, contenere le emissioni, creare filiere territoriali. Fra gli studiosi, c'è anche chi ipotizza una diffusione di microimpianti di vertical farm che ciascuna famiglia può curare direttamente in casa per il proprio autoconsumo (le cosiddette "micro-Pfals"). Opportunità che devono essere prese in considerazione per un cibo più sano (non si usano mezzi tecnici, tendenzialmente), coltivato in atmosfera controllata, in grado di far crescere una coscienza ambientale più concreta e meno ideologica.

 

Sul piano numerico, il settore nel 2022 ha generato un mercato intorno ai 5,8 miliardi di dollari, con la proiezione di raggiungere i 30 miliardi nel 2030.
A livello di diffusione, oltre la metà (52% secondo i dati della dottoressa Giuseppina Pennisi dell'Università di Bologna, pubblicati nel volume "Agricoltura Urbana", Edagricole) si trova in Nord America, il 24% in Asia, il 20% in Europa. Le prospettive di sviluppo, si è visto, sono particolarmente interessanti e potrebbero affiancare altri modelli produttivi, senza entrare in competizione, ma appunto generando sistemi complementari ad elevato tasso di innovazione, di digitalizzazione, di robotizzazione.

 

Resta il nodo dei costi di avviamento che, con dimensioni significative, non sono trascurabili. Ma le tecnologie, come è noto, a mano a mano che si sviluppano sono sempre più competitive. Un'avvertenza: come ogni "avventura" imprenditoriale bisogna studiare, eseguire un business plan accurato, individuare canali distributivi prima ancora di partire. Improvvisare, con i costi che ha il vertical farming, potrebbe essere molto rischioso. Ma potrebbe essere un'opportunità interessante soprattutto per riutilizzare capannoni abbandonati, per ridurre i trasporti, per fornire servizi con prodotti altamente controllati e di qualità. Voi cosa ne pensate?