Un paio di anni dopo arrivò infatti a 340 quintali, quindi, dopo una pausa nel 2018 causa condizioni climatiche non del tutto favorevoli, nel 2019 ha ulteriormente battuto se stesso in occasione del National corn yield contest, ovvero il campionato dei produttori americani di mais. Oggi il nuovo record è infatti di 616 bushel per acro, tradotto in sistema metrico decimale, circa 390 quintali per ettaro. In soli quattro anni, cioè, Hula è passato dallo sfiorare la soglia dei 300 quintali a rasentare quella dei 400.
Molto evolute le sue tecniche agronomiche, basate sullo strip till, ovvero un sistema di lavorazione verticale del terreno senza rivoltamento, abbinato ad altre prassi afferenti alle minime lavorazioni, nella fattispecie il ridge till. Questo prevede di scavare solchi in campo o prima della totale copertura da parte della coltura, verso giugno, oppure in autunno, operando su terreno ormai nudo. Gli stocchi trinciati vanno lasciati in campo lavorando a fine inverno il terreno per i primissimi centimetri, in modo che si vadano a colmare i solchi precedentemente prodotti, portando con sé anche i residui colturali dell'anno precedente e l'eventuale flora spontanea presente.
Diserbo, fertilizzazione e irrigazione, ovviamente giocano un ruolo fondamentale, dando al mais il massimo di ciò che necessita, quando ne necessita, ed evitandogli competizioni sgradite con le malerbe. Verso gli insetti no: il mais seminato da Hula si difende da solo, essendo un ibrido resistente grazie al gene Bt.
Dopo Hula, v'è da dire, non se la sono cavata male nemmeno il secondo e il terzo classificato, con 350 e 345 quintali rispettivamente. Tutti e tre gli occupanti del podio sono riusciti quindi a battere il record precedente.
Italia e sonni fatali
Osservando tale record, sovviene che in Italia la superficie a mais è quasi dimezzata in 15 anni. Le rese per ettaro, peraltro, sono rimaste più o meno stabili. Ciò ha obbligato a crescenti importazioni di prodotto estero, magari trebbiato proprio da David Hula. Questi non ha dovuto infatti scontrarsi con normative che bocciano le biotecnologie, come pure che limitano fortemente gli apporti di fertilizzanti, indipendentemente dalle specifiche situazioni di campo, dai prodotti e dalle tecniche utilizzate per distribuirli. Non parliamo poi di agrofarmaci, sempre meno numerosi e anch'essi sottoposti a crescenti limitazioni il più delle volte immotivate.Forse anche a causa di ciò, per fare quello che ha fatto Hula da solo in America servirebbero per lo meno tre maiscoltori italiani medi. Due, se si vanno proprio a prendere quelli più bravi che lavorano nelle aree più vocate. Il giorno in cui si facessero finalmente i conti circa i reali impatti ambientali fra tali situazioni contrapposte, forse i quintali prodotti da Hula risulterebbero a sorpresa molto più eco-friendly di quelli nostrani, visto che gli impatti a ettaro del maiscoltore americano si vanno a ripartire sul doppio quando non addirittura sul triplo dei quintali qui ottenuti. Vi è cioè da pensare che se la maiscoltura italiana dovesse lavorare come David Hula, con la metà degli ettari un tempo coltivati ritornerebbe a produrre quanto 15 anni fa, restituendo al Paese la pressoché totale indipendenza per il granturco, impattando pure meno di 15 anni fa, quando si lavorava con il doppio degli ettari.
Forse sarebbe bene che l'Italia - come pure l'Europa che ne influenza le Leggi nazionali - comprendessero che il mondo agricolo del futuro sarà sempre più in mano alle nazioni che lasciano liberi di investire i propri "David Hula" di turno, anziché inibirne la produttività a tutto danno della bilancia commerciale. Perché di agricoltori bravi quanto e forse più di David Hula è probabile che nel Belpaese ve ne siano parecchi. Peccato possano marciare solo a mezzo gas, compensati solo parzialmente da sussidi atti a spegnerne ogni moto di rivolta contro un contesto politico, mediatico e sociale che li sta derubricando da produttori di cibo per tutti a custodi del paesaggio.