Da alcuni anni, nell'era del presidente Vladimir Putin, la Federazione russa non sta più nascondendo le proprie mire espansionistiche e la volontà di ritornare a rappresentare il ruolo di potenza egemone nello scacchiere geopolitico mondiale.
Negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione d'ottobre l'arte celebra l'uomo nuovo della Russia eterna attraverso il realismo e il suprematismo, mescolando astrattismo e immagini attraverso le quali la propaganda assume i connotati più concreti delle sfide per migliorare la produzione agraria.
"Il percorso verso la messa a disposizione delle terre parte nel 1905, dopo una grande rivolta collettiva, alla quale segue appunto la riforma di Stolypin - spiega il professor Dario Casati, docente di Economia agraria all'Università di Milano, della quale è stato a lungo prorettore -. Tale provvedimento aveva esteso la proprietà legale della terra non soltanto ai nobili, ma anche ai borghesi e ai contadini, con l'obiettivo di superare la struttura del Mir, l'antichissima organizzazione economica e politica a carattere collettivo, nella quale si muoveva il Consiglio dei contadini servi".
Le terre comprese nei Mir erano costituite da campi, le cui ripartizioni erano effettuate periodicamente in base ai criteri di fertilità e in relazione al numero dei componenti della famiglia contadina, la quale doveva corrispondere un obrok, un canone in denaro, o in alternativa prestare il proprio lavoro servile. "Per semplificare il concetto si trattava di una sorta di proprietà indivisa - afferma Casati - della quale ci sono rarissimi esempi anche in Italia, a Nonantola nel Modenese, a Sale Marasino nel Bresciano e a Motteggiana nel Mantovano".
Il Mir rimase la forma prevalente di organizzazione delle terre, in quanto la riforma di Stolypin veniva interpretata in maniera non univoca, in parte come retaggio del feudalesimo e in parte come precursore del collettivismo caratteristico dell'era sovietica. Nel febbraio del 1930 il Mir fu abrogato per legge.
Con la rivoluzione nascono, di colpo, oltre 25 milioni di aziende di piccole dimensioni. Nel 1917 la situazione in Russia, anno nel quale era entrata come Stato belligerante della Prima guerra mondiale, era di profonda crisi, con una disponibilità minima di combustibili, con una produttività dei terreni ridotta del 60% rispetto al periodo prebellico e con salari da fame.
"Furono questi i presupposti che portarono al sistema di requisizione dei prodotti delle aziende agricole eccedenti il fabbisogno familiare, finalizzato a sostenere i consumi nelle città, l'industria e l'esercito - prosegue Casati - ma questo sistema si rivelò ben presto controproducente, perché tolse totalmente ogni stimolo ai contadini di produrre di più del proprio fabbisogno familiare".
Senza alcuna remunerazione, in effetti, veniva meno l'interesse a intensificare la produzione, con la conseguenza che si determinò un calo degli approvvigionamenti verso la città. Una situazione che il regime sovietico tentò di superare introducendo la Nuova politica economica (Nep) e soppiantando il sistema delle requisizioni obbligatorie con l'imposta in natura.
Il primo piano quinquennale, approvato nel 1929, prevedeva una collettivizzazione progressiva, che venne invece soppiantata da un'accelerazione del processo, con l'eliminazione dei kulaki come classe. Nel giro di un anno si passò a due modelli di collettivizzazione. Nelle campagne sovietiche i riferimenti erano il kolchoz e il sovchoz.
"I sovcos erano le aziende di Stato, di grandi dimensioni, organizzate in maniera industriale e con diverse unità di produzione, dalla brigata trattori alla brigata allevamento, con una programmazione organizzativa, produttiva, del lavoro, delle vendite e dei salari estremamente rigida - precisa Casati - mentre il sistema del kolchoz era un modello produttivo di carattere comunitario con differenti livelli di collettivizzazione e con un tasso di meccanizzazione inferiore rispetto al sovchoz".
Il volume "Agricoltura-Mondo" di Guido Fabiani (2015, Donzelli editore, euro 32) dice che la forma più diffusa di kovchoz era l'artel, una sorta di "associazione volontaria in cui i singoli conferivano la terra e i capitali per la conduzione comune, mantenendo solo un appezzamento a titolo individuale con l'abitazione e una parte del bestiame".
Nel 1938 il 93,5% delle famiglie contadine erano assorbite in 250mila kolchoz; a questi si dovevano aggiungere 4.750 sovchoz, vale a dire rispettivamente l'85% e il 10% delle terre coltivate.
"Il passaggio verso le aziende collettive non è stato particolarmente doloroso, anche se non possiamo dimenticare che la missione era quella di eliminare qualsiasi forma di proprietà privata, che pure rimase una costante, ancorché limitatissima, del sistema agricolo sovietico", spiega Casati.
Che cosa mancò al sistema, che non fece funzionare affatto quel modello di agricoltura in un contesto di iper-collettivismo? "Innanzitutto i deficit produttivi - risponde Casati -. Persino i cereali, produzione simbolo della Russia granaio d'Europa, dovevano essere importati per soddisfare le esigenze del popolo. E poi mancò totalmente l'impulso all'innovazione, al di là di un ricorso alla meccanizzazione crescente, ma non sufficiente".
La collettivizzazione non era in grado di assecondare le richieste di crescita della Russia, non ha stimolato alcuno spirito imprenditoriale, dal momento che era lo Stato che acquistava la produzione agricola a prezzi bassi, non ha sviluppato il comparto agricolo che è stato per lo più sacrificato a vantaggio dell'industria pesante e di quella militare.
"Un'industrializzazione forzata - afferma Casati - a spese dell'agricoltura e del suo sviluppo. Un po' quello che fece Hitler in Germania, consapevole che il sostegno al suo Governo non proveniva dal ceto agrario".
In sostanza, l'unico obiettivo centrato dal comunismo sovietico è stato quello di creare "l'operaio della terra".
Archiviato l'insuccesso del comunismo, con la fine dell'Unione Sovietica (1991), dal 2000 la Federazione russa è diventata uno dei maggiori esportatori di grano nel mondo, con un import non indifferente per quanto concerne l'ortofrutta, il lattiero caseario e le carni.
Il percorso di liberalizzazione ha modificato la morfologia del sistema agricolo, che vede sia la piccola proprietà contadina con appezzamenti da mezzo ettaro e un ettaro, proprietà di dimensioni medie intorno ai 50-60 ettari e grandi aziende figlie della precedente fase collettivistica, che contribuiscono al 45-50% della produzione agricola.
Tra gli aspetti più complicati nel periodo successivo alla liberalizzazione, secondo Casati, non devono essere dimenticati quelli legati all'accesso al credito. "Il fenomeno di decollettivizzazione dai vecchi sovchoz e kolchoz - spiega - ha avuto il limite che non ha fatto capire il sistema dei mutui e dei prestiti finanziari, sottoscritti dagli agricoltori, ma non restituiti".
Nel 2012 la Russia è entrata nell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e oggi, in conseguenza alla crisi della Crimea e alla chiusura dei rapporti commerciali nell'agroalimentare con l'Unione europea, gli Stati Uniti, il Canada, in seguito alle sanzioni inflitte nel 2014 dai paesi Nato, la Russia sta modificando sia i propri flussi di importazione sia la propria politica agricola, favorendo lo sviluppo di filiere strutturate al proprio interno, dalla zootecnia all'orticoltura, dai cereali ai vigneti.
Nel giro dei prossimi sette anni, ha annunciato nelle scorse settimane il ministro dell'Agricoltura, Alexander Tkachev, la Russia sarà in grado di acquistare completa autosufficienza nella produzione di prodotti agricoli, ad eccezione dei generi alimentari esotici.
"Certamente, non torneremo ad avere tutti i terreni agricoli persi, ma sono fiducioso che 10-12 milioni di ettari saranno rimessi in produzione agricola - ha sostenuto -. Il compito di rimettere in circolazione i terreni agricoli è una priorità".
Nel 2016 gli scambi commerciali tra l'Ue e la Russia sono scesi a 235,7 miliardi di dollari, contro i 417,7 miliardi di dollari del 2013. La Russia è uno dei principali partner commerciali dell'Unione europea, insieme a Cina, Stati Uniti e Svizzera.
Secondo una ricerca economica condotta dal Cepii, dal 2014 a metà del 2015, i paesi che hanno sostenuto le sanzioni antirusse hanno perso un totale di 60,2 miliardi di dollari.