“Non mi meraviglia che gran parte del mondo agricolo abbia votato Trump. A trascinare le preferenze potrebbero essere state le risposte del candidato repubblicano alla crisi del mondo agricolo e ai prezzi molto bassi delle commodity, con la promessa cioè di virare verso la strada del protezionismo”.
Il protezionismo è la chiave di lettura, dunque?
“È stata indubbiamente una leva molto forte, utilizzata appunto per dare sostanza allo slogan trumpiano, quel Make America great again che ha convinto da un lato il mondo agricolo e dall’altro il mondo delle fasce operaie che, a torto o a ragione, pensavano che di aver perso il lavoro per una serie di fattori concomitanti, come gli scambi con i paesi orientali, per effetto della globalizzazione, per la questione dell’immigrazione dal Messico”.
Bisogna vedere se poi sarà effettivamente così.
“Infatti. Il primo elemento è un grande punto interrogativo rispetto al fatto che ci sia corrispondenza tra quanto annunciato in campagna elettorale e quanto potrà o deciderà di fare una volta insediato come presidente. In verità è un problema che si verifica spesso, in generale, e che potrà riguardare anche lui. Il primo discorso di Trump è stato di tono molto diverso da quello aggressivo che è stato il marchio di fabbrica di tutta la campagna elettorale. Si tratta di capire se e cosa cambierà nella sostanza, oltre che nella forma”.
Quali effetti ipotizza nel rapporto fra Stati Uniti e Italia?
“Per l’Italia gli Stati Uniti sono un importantissimo mercato per l’agroalimentare. Probabilmente gli Usa sono il secondo Paese di destinazione per il made in Italy dopo la Germania. Sinceramente non penso che i nostri prodotti subiranno dei contraccolpi destabilizzanti sul piano commerciale, perché sono presenti su questi mercati da tempo, non sono il più delle volte in diretta competizione con i prodotti interni, non hanno volumi tali da creare fastidi enormi sul mercato interno americano”.
Nessun rischio derivato dal protezionismo?
“Sì, una percentuale di rischio c’è, ma non la vedo come imminente”.
Nemmeno per Dop e Igp?
“Bisogna dire che già prima gli Usa facevano una fatica terribile a proteggere le indicazioni geografiche. Immagino che ora sia ancora più difficile raggiungere un adeguato livello di tutela per le nostre produzioni tipiche. Era uno dei temi caldi non ancora affrontati in modo soddisfacente, ma francamente non so se ci sarà un peggioramento, perché non avevamo ancora trovato una soluzione. Immagino però che ora Trump non stia più ad ascoltare gli appelli provenienti dall’Europa”.
Trump in più di un’occasione ha negato l’esistenza dei cambiamenti climatici. Condivide?
“Non sono un climatologo per cui non ho le competenze scientifiche per avventurarmi in questioni che lascio ad altri. La posizione adottata da Trump credo vada ricondotta al futuro delle politiche energetiche. Negare l’esistenza del problema dei cambiamenti climatici è funzionale a un risveglio del mercato del petrolio”.
Il tema energetico è stato forse l’aspetto più vicino al mondo agricolo affrontato dai candidati. Entrambi non hanno dedicato forse molto tempo al settore primario. Trump è un acceso sostenitore delle energie tradizionali, carbone e petrolio…
“Sì, è vero. Già in passato altri presidenti degli Stati Uniti erano legati al petrolio: la famiglia Bush ha avuto con quel mondo un legame evidente. L’elemento devo ammettere che è preoccupante, anche se non di diretto e immediato impatto. Tuttavia questa attrazione verso l’energia fossile potrebbe modificare le norme sui biocarburanti e l’approccio alla materia. I biocarburanti rivestono un ruolo importante per l’agricoltura. Pensiamo ad esempio alla produzione di mais finalizzata al bioetanolo. In questo caso specifico, avremmo un conflitto fra l’esigenza di proteggere gli agricoltori e la protezione del petrolio”.
Come finirà?
“Credo che alla fine prevarrà il sano pragmatismo americano. Anche perché, bisogna rilevare che nel momento in cui si spinge di più sui consumi di petrolio, questa politica rende automaticamente vantaggiose le energie rinnovabili. Resta chiaramente sullo sfondo il dramma legato alla sostenibilità di queste possibili scelte”.
Rispetto a Hillary Clinton, Donald Trump è molto più propenso a instaurare un dialogo proficuo con il presidente russo Vladimir Putin. Sarà la fine delle sanzioni?
“È prematuro dirlo. Se però Trump riuscisse a lavorare in direzione di una riduzione delle sanzioni ci potrebbe essere una boccata d’ossigeno che porterebbe vantaggi anche all’Europa, grazie alla riapertura dei mercati russi. Anche il dialogo Usa-Russia può essere letto con particolare attenzione verso due mercati strategici, come l’energia e il trade dei cereali”.
Premesso che in queste elezioni gli economisti hanno sbagliato molte previsioni, c’è chi ha sostenuto che la vittoria di Trump innescherà nel breve periodo un aumento della volatilità. È plausibile?
“In verità non c’è dubbio che la volatilità sui mercati agricoli mondiali è un dato ormai acquisito, di tutta evidenza e oggettivamente è pertanto difficile ipotizzare un aumento del fenomeno, almeno con riferimento ai mercati delle commodity agricole. Un aspetto da non sottovalutare è l’effetto delle politiche che Trump metterà in atto in campo monetario e quali implicazioni avranno sulla forza del dollaro. L’Italia e l’Unione europea hanno aumentato l’export verso gli Usa, grazie alla forza relativa del dollaro, che era iniziata già nella seconda metà del 2014. Finché il dollaro si manterrà in salute, per l’Ue e l’Italia ci saranno maggiori opportunità di export”.