Un po’ di Europa spiccia, per qualche riflessione veloce. Innanzitutto, la revisione a medio termine della Pac 2014-2020 non ci sarà. Troppo poco tempo. C’era da aspettarselo. La notizia non è ufficiale, ma fonti interne alla Commissione Agricoltura pongono l’accento sulla tempistica. Con il cosiddetto “trilogo”, adottato con il Trattato di Lisbona, che impone un processo di co-decisione tra Parlamento, Consiglio e Commissione europea, i tempi sono destinati inevitabilmente a dilatarsi.
Ragione per la quale, anche qualora venissero messe sul piatto idee per una revisione di una Politica agricola comune che sconta il livello più alto in assoluto di complicazione e burocrazia, servirebbero parecchi mesi, forse anche un anno, per raggiungere un’intesa.

Eventuali miglioramenti della riforma, dunque, potrebbero essere adottati nel 2018, secondo realistiche previsioni. Troppo tardi, dunque, dal momento che la riforma della Pac che potrebbe portare l’etichetta del commissario irlandese Phil Hogan, entrerà in vigore nel 2021 (e fino al 2028). La prudenza forse dovrebbe imporre di adottare il condizionale, visto che la presente riforma avrebbe dovuto partire nel 2014 e, invece, è scattata a 2015 inoltrato.

Si sta comunque lavorando per migliorare alcuni elementi della Pac. Su tutti, e con una certa urgenza, il famigerato “greening”, la cui applicazione finora è stata solamente cervellotica, senza nemmeno – pare – questi grandi benefici sul piano ecologico-ambientale.

Quello che invece appare più probabile, ma non meno appassionante, è la definizione del budget. Entro la fine di quest’anno o al massimo nei primi mesi del 2017, il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, dovrebbe annunciare quale sarà l’ammontare delle risorse della prossima Pac.
Tenuto conto che i fondi assegnati al comparto agricolo sono sempre diminuiti (negli anni Ottanta erano oltre l’80% del budget comunitario, mentre oggi non arrivano al 39%), c’è chi è pronto a scommettere che i finanziamenti dopo il 2020 saranno meno degli attuali. E già un grandissimo risultato sarebbe ottenere dalla proposta di Juncker e dai negoziati conseguenti la conferma degli stanziamenti attuali.

Sul tema conterà anche la posizione della Gran Bretagna, sempre che il referendum del prossimo 23 giugno non la consegni allo status di isola vera e propria, sganciata da quelle che soprattutto le giovani generazioni definiscono pastoie legislative. Si vedrà. I sondaggi per ora dicono che il 55% dei cittadini britannici alla fine, turandosi il naso, voterà per restare in Europa.