“La crisi? Potrebbe avere un effetto positivo nel calo dei consumi di junk food, almeno in certe fasce della società. Il made in Italy marchio unico, come suggerito dal patron di Eataly, Farinetti? Una sciocchezza che svilirebbe le eccellenze. L’etichettatura? Una risorsa per informare il consumatore, osteggiata dall’industria e la grande distribuzione”.
Sono queste alcune delle risposte del professor Domenico Secondulfo, ordinario di Sociologia all’Università di Verona e direttore dell’Osservatorio sui consumi delle famiglie, che entra a gamba tesa su trasmissioni come la seguitissima MasterChef, “dove il cibo è solo un pretesto per tratteggiare la società della disoccupazione giovanile”.
AgroNotizie ha avuto un piacevole colloquio con lui.

Professor Secondulfo, i consumi alimentari sono in flessione. Come si comportano le famiglie?
“Le famiglie italiane da diversi anni stanno riorganizzando le loro strategie di spesa. L’impatto della crisi economica ha diviso la società familiare in tre grandi segmenti”.
Quali?
“Abbiamo una fascia che ha gravi problemi di reddito e compra meno, dirigendosi sul primo prezzo. Sono famiglie vittime della crisi, che hanno ristretto anche nel comparto alimentare, che è il penultimo a essere ristretto, prima di tecnologia e, nel settore alimentare, i vini”.
Quante sono queste famiglie in difficoltà?
“Ipotizziamo circa il 30% delle famiglie”.
C’è però anche una parte della società che vede alcune famiglie non risentire affatto della crisi.
“Sì, è vero. E fanno quello che facevano prima, ma con minore ostentazione. Il ricco comincia a capire che non deve farsi notare troppo, per non incappare in quella che potrebbe essere una piccola sanzione sociale. Per questo la frequentazione di queste famiglie si sposta maggiormente verso i club, i circoli privati e sostanzialmente in un circuito di incontri conviviali in cui si possono esibire i consumi senza suscitare invidie. Per queste famiglie i consumi alimentari di alto livello continuano. Rimane, come segnale vistoso, quello dell’automobile; ma a differenza degli anni Sessanta, quando il boom portava ad acquistare le spider basse e veloci, oggi vince il modello del Suv, dell’automobile carrarmato, quasi che chi è ricco desideri proteggersi. D’altronde, se la società si impoverisce, l’invidia si trasforma in aggressività e non in emulazione”.
Quante possono essere, queste famiglie, in termini percentuali sulla società?
“Circa il 20% del totale”.
Poi c’è la fetta del ceto medio.
“Parliamo del 50% delle famiglie italiane. È la parte della società che si sta impoverendo e che negli anni Sessanta ha trascinato i consumi in Italia. Per questa categoria le scelte di vita incidono pesantemente sui consumi e, nel comparto agroalimentare, l’area si sta riorganizzando senza bisogno di andare al primo prezzo, ma facendo marketing mix”.
Cosa significa?
“Che in alcune scelte stringe i consumi, in altri segmenti no. Si sta ad esempio facendo molto forte la selezione dei punti vendita, anche se questa decisione richiede un notevole dispendio di tempo. Sono gli utenti classici di Campagna Amica o delle associazioni dei consumatori, che risentono in maniera molto violenta dello scadimento di tipo sociale. Poi, nella grande fetta del ceto medio ci sono grandi sfumature. Nel vino si fa strada il famoso slogan «bere meno, bere meglio». Nel campo dei consumi legati all’abbigliamento o alle tecnologie si fa strada l’idea dell’acquisto dell’usato, vissuto come un’astuzia da parte del consumatore”.
Sono famiglie che non danno punti di riferimento in acquisto, par di capire.
“In effetti è spesso così. Scelgono il sistema di distribuzione che più conviene e che fa leva su ideologie di bilanciamento”.
Cioè?
“Si cambia stile di vita, ma con l’impressione di farlo in maniera smart. Ad esempio, anziché uscire a cena, perché costa di più, si organizzano cene in casa. Il fai da te domestico da anche l’idea di contribuire all’ecologia, di combattere l’inquinamento del mondo: è così che si sono diffusi gli orti urbani e la spesa a kilometro zero. E tale illusione di fare qualcosa di utile non ha fatto incazzare la gente, per essere diretti”.
Esiste un aspetto positivo della crisi?
“In qualche caso fa riscoprire valori positivi. Ho accennato all’ambiente, alla riscoperta della socialità, ma è venuto scemando il processo di individualizzazione enormemente spinto, in cui si mirava ai singoli soggetti per avere i consumatori isolati: oggi hanno più spazio le associazioni dei consumatori. Inoltre, potrebbe diminuire il consumo del junk food (il cibo spazzatura, ndr), anche se tale tendenza non sarà univoca, visto che parliamo di cibo ad alto contenuto di grassi e e zuccheri, che con poca spesa può dare grande soddisfazione. Non dimentichiamo che il junk food è una droga e crea dipendenza”.
Come si possono incentivare i consumi?
“Molto banalmente ridando liquidità alle famiglie. Se dai soldi al consumatore, seleziona l’offerta. È il consumatore che deve avere maggiore potere d’acquisto, non le aziende”.
Come vede la proliferazione di trasmissioni televisive dedicate al cibo, alla cucina, agli chef?
“Siamo in crisi economia e quando si ha fame si parla di cibo. Ma assistiamo a diversi tipi di programmi”.
Cioè?
“Pensiamo a La prova del cuoco, il programma condotto da Antonella Clerici, ha un target per ultra 65enni. Ma ci sono anche programmi per donne che lavorano, che hanno fretta. E format con le ricette che insegnano a come cucinare gli avanzi: torniamo a Petronilla e se ci pensiamo solo 10 anni fa la gente si sarebbe messa a ridere”.
MasterChef, invece, a quale filone appartiene?
“MasterChef è il filone che si aggancia a Maria De Filippi. È un programma che mescola socializzazione e lotta, sofferenza e frustrazione. Siamo alla sublimazione del meccanismo della sofferenza, degli stage gratuiti, con un modello autoritario. Il richiamo è ai giovani, ai disoccupati che devono accettare il lavoro che viene. MasterChef c’entra molto poco col cibo”.
Che ruolo ha il consumatore in tutto ciò?
“Nessuno, perché direi che sono progressivamente scomparsi i programmi di ausilio al consumatore, quelli alla Mi manda Lubrano, per intenderci. Ma questo è un effetto dello strapotere della grande distribuzione, che anziché migliorare la qualità dei prodotti cerca invece di abbassarla e fare in modo che il consumatore non sia consapevole di tale abbassamento. È un atteggiamento suicida, perché il consumatore non è più quello degli anni Cinquanta”.
Etichettatura e indicazione dell’origine possono dare dei vantaggi?
“Si, l’etichettatura dà certamente dei vantaggi, perché una parte importante di famiglie che hanno una minore capacità di spesa è più accorta e l’etichettatura, per il solo fatto di dare informazioni diventa un fatto promozionale e allo stesso tempo seleziona l’offerta e rende più sano il sistema. Ha inoltre il vantaggio di fidelizzare il consumatore e selezionare il mercato”.
Cosa farebbe dire alle etichette?
“Serve un’etichettatura estremamente precisa, leggibile, scritta almeno in corpo 12, per non dire di grandezza equivalente a quella del marchio. E poi le informazioni nutrizionali devono essere sempre riferite al chilogrammo, non alla singola porzione, che impone a chi acquista di fare troppi calcoli, quasi mai immediati. Ma il problema è che la distribuzione non ama il consumatore riflessivo”.
E l’industria ama il consumatore riflessivo?
“Niente affatto, perché manca l’idea di lavorare sulla qualità del prodotto; si preferisce spingere su immagine e comunicazione, motivo per cui il consumatore accorto da fastidio. Quindi, a mio giudizio, ben venga la determinazione dell’origine in etichetta, purché sia la più precisa possibile. E state certi che il consumatore premierà le aziende che lavorano seriamente”.
A più riprese si è acceso il dibattito sul made in Italy: la materia prima deve essere italiana al 100%?
“Assolutamente sì. La materia prima è fondamentale, anche se il tipo di trasformazione la può sconvolgere completamente. Ma sapere cosa è contenuto nel prodotto finito è importantissimo. Solo con l’indicazione della materia prima si incoraggiano i consorzi e si tutela il territorio. Ma bisogna indicare non soltanto la provenienza della materia prima, magari segnalando addirittura la regione o la provincia di origine, perché il made in Italy non basta più, ci vuole una denominazione chiara e super controllata”.
In questo modo, però, aumentano i costi.
“Non lo so. I costi aumentano finché non cala la vendita. Ma non possiamo abbassare la guardia, perché il made in Italy è un patrimonio da tutelare, se lo mettiamo a repentaglio noi stessi con la poca trasparenza, siamo morti”.
Recentemente Oscar Farinetti, patron di Eataly, ha lanciato l’idea di un marchio unico per il made in Italy. È d’accordo?
“No, detta così mi sembra una sciocchezza, che uccide la logica della differenziazione e della valorizzazione dei marchi. Se siamo tutti made in Italy, ci guadagnano quelli che fanno le cose peggiori. Se la Toscana chiamasse tutto il proprio vino Brunello, chi ne guadagnerebbe?”.
È notizia di questi giorni l’innalzamento della presenza di frutta al 20% come soglia minima. Ora il rischio proviene da una bocciatura in sede comunitaria, come è già capitato. Cosa dice?
“La bocciatura di Bruxelles è inaudita. Così non si va da nessuna parte”.
Ogm: favorevole o contrario?
“Eticamente sono contrario, perché non basta dire che non è dimostrato che gli ogm facciano male. O è dimostrato che gli Ogm fanno male o che fanno bene. Bisognerebbe dare spazio alla sperimentazione e prendersi i tempi che servono per arrivare a delle certezze. Sul versante dell’alimentazione bisogna essere granitici nelle certezze, nel non alimentare, penso ad esempio al cotone coltivato in India, magari si può avere un atteggiamento un po’ più lasco”.