"Ma quando tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra quel che fa la destra". (Matteo 6:3)
Anche dando per buono il dogma dell’onniscienza divina, verosimilmente il precetto evangelico non intendeva stabilire un protocollo operativo per la gestione dei fondi di un'Unione europea che sarebbe nata solo un paio di millenni più tardi.
A quanto pare, invece, è esattamente quanto sta succedendo a Bruxelles con i fondi Fesr e Feaga, col risultato che i beneficiari, a parità di Paese e di prodotto,  sono sottoposti a vincoli diversi a seconda del fondo a cui riescono ad accedere.

Ne sa qualcosa il nostro Ceq, Consorzio extravergine di qualità, che in una conferenza stampa alla quale hanno partecipato Elia Fiorillo e Mauro Meloni, rispettivamente presidente e direttore del Consorzio, ha denunciato il caso della promozione dell’olio d’oliva italiano e spagnolo in India, Cina e Russia, che, grazie a una gestione quantomeno singolare delle risorse da parte dell’Ue, vede gli spagnoli promuovere il marchio “Olio spagnolo” e gli italiani costretti a promuovere il marchio “Olio europeo”, facendo di fatto pubblicità anche ai loro diretti concorrenti iberici.

A ogni fondo i suoi vincoli

Sia ben chiaro: gli spagnoli non stanno facendo nulla di illegale. Data la normativa vigente, infatti, nel caso specifico quella della concorrenza sleale è una questione di carattere etico; e l’etica non fa certo parte della dote di chi voglia misurarsi sui mercati mondiali.
Il problema nasce infatti in Belgio, dove il fondo Feaga (Fondo europeo agricolo di garanzia, gestito dalla DG Agricoltura) e il fondo Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale, gestito da DG Regio) hanno finanziato contemporaneamente il programma di promozione di due produttori concorrenti negli stessi mercati obiettivo.
Poiché però il fondo Fesr utlizzato dalla Spagna non prevede vincoli, mentre il fondo Feaga utilizzato dall’Italia vieta esplicitamente di promuovere marchi commerciali e origini specifiche, ci si ritrova con il paradosso che agli spagnoli è permesso di promuovere l’immagine del proprio paese, mentre agli italiani è vietato.
Questo nonostante la provenienza dei fondi sia sostanzialmente la medesima.

Che il casus belli dipenda da un mancato coordinamento, ovvero da una guerra di potere tutta interna ai due organi, non è particolarmente rilevante.
La necessità di trovare una soluzione rimane ugualmente impellente, soprattutto perché la situazione si è già presentata con la promozione di altri prodotti agroalimentari (e nello specifico dei prosciutti) e può potenzialmente replicarsi per ogni elemento produttivo-commerciale legato al settore primario e per ogni Paese che acceda a un fondo piuttosto che a un altro.
In Italia, inoltre, i fondi Fesr sono gestiti dal ministero dell'Economia e sono utilizzati in base a priorità tra le quali l'agricoltura non è attualmente compresa.

Le ricadute per l’Italia

Se la distorsione della concorrenza può sembrare a prima vista marginale, va considerato che le ricadute sul nostro Sistema Paese potrebbero essere di entità tutt’altro che minime.

Partendo dal principio che questi programmi promozionali e informativi sono finanziati, oltre che dai fondi, per il 20% dal Mipaaf e per il 30% dagli interessati - i soci del Ceq, nel caso specifico - e seguendo un percorso logico elementare, diviene immediatamente evidente come pagare per promuovere i prodotti dei propri concorrenti rappresenti una sorta di autolesionismo economico.
L’abbandono da parte degli investitori nazionali di questo tipo di promozione, tuttavia, non può non tradursi in un sostanziale depauperamento della promozione del “made in Italy” agroalimentare in generale, ossia di uno dei pochi settori economici nazionali in controtendenza rispetto alla crisi.

La ricerca di una soluzione

"Non appena il problema è emerso e ne abbiamo chiarito le cause e valutato gli effetti potenziali – ha dichiarato il presidente del Ceq -,  il Consorzio ha immediatamente denunciato la cosa ai servizi della Commissione, all’Agea e al Mipaaf, chiarendo che i nostri soci non hanno alcuna intenzione di portare avanti una politica di comunicazione per loro dannosa e che sono decisi a ritirarsi dai programmi. Abbiamo chiesto l'interruzione dei programmi e non abbiamo alcuna intenzione di subire il balletto burocratico tra DG Agri e DG Regio".
La denuncia ha trovato subito un'ampia sponda presso il Mipaaf, che ha immediatamente dato il pieno appoggio al Consorzio, mentre da Bruxelles sono giunte risposte sinora a dir poco evasive, fino all'ammissione di essere del tutto ignari del problema, con lo stesso commissario Ciolos che ne è venuto a conoscenza solo dietro segnalazione del nostro ministro Catania.

"Abbiamo chiesto di fermare questo meccanismo perverso che ci chiede di finanziare chi ci sta portando via sensibili quote di mercato - ha dichiarato Mauro Meloni -.  Il paradosso è che non possiamo uscirne senza essere autorizzati dagli stessi uffici che hanno creato questo scempio che abbiamo denunciato già otto mesi orsono. Confidiamo nella sensibilità politica del commissario Ciolos, al quale non è certo sfuggito il paradosso che due regole contrapposte in un'Europa Unita non possono coesistere".

La palla passa ora alle istituzioni comunitarie alle quali, ognuna per le proprie competenze, è richiesta una soluzione immediata, univoca e definitiva del problema.

Una soluzione necessaria perché, per parafrasare un altro celebre precetto evangelico, a prescindere dal fatto che gli schiaffi arrivino dalla mano destra o dalla sinistra, l’agroalimentare italiano non ha alcuna intenzione di porgere l’altra guancia.

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