La proposta in questione scaturisce da una considerazione di buon senso:
- l'attuale legislazione ambientale obbliga al trattamento di depurazione delle acque residue, fino ad ottenere una qualità comparabile a quella dei corpi idrici naturali;
- l'acqua per l'irrigazione viene maggiormente prelevata dai corpi idrici naturali;
- allora: Che senso ha spendere soldi pubblici nel trattamento dei reflui, per poi versarli nei fiumi e canali, da cui pompare l'acqua per l'irrigazione? Per quale motivo non si dovrebbero riutilizzare le acque depurate direttamente per l'irrigazione?
Secondo gli studi che supportano la suddetta proposta di regolamento, oltre il 60% dell'acqua utilizzata nell'Europa Meridionale è destinata all'irrigazione, con punte di estrazione che arrivano all'80% in alcuni bacini idrici. Il trattamento e successivo riutilizzo agricolo dei reflui urbani ed industriali è dunque la strategia più efficace per combattere la crescente siccità, conseguenza del cambiamento climatico.
Esiste già molta letteratura scientifica sul recupero delle acque di scarico - civile o industriale - adottato in altri paesi tecnologicamente avanzati, come ad esempio Australia, Israele, Stati aridi del Sud degli Stati Uniti. Sono diversi i progetti di cooperazione internazionale tra il mondo della ricerca scientifica universitaria e i paesi in via di sviluppo in Africa e America Latina, grazie a fondi pubblici europei (si vedano ad esempio il progetto Ruvival dell'Università di Hamburg, per esperienze in Italia, il progetto Water Re-Born - Artificial Recharge). Nel 2006, il Consorzio Aquarec, finanziato dalla Commissione europea, pubblicò un manuale sul riutilizzo delle acque reflue (Water reuse system management manual, acquistabile in Cd-Rom o supporto cartaceo).
Premesso ciò, possiamo affermare che la mancanza di dati scientifici non è il la causa dell'attuale problema che limita o addirittura blocca le iniziative di riutilizzo degli effluenti depurati in agricoltura, si tratta piuttosto di una barriera normativa puramente ideologica.
Alla data di pubblicazione del presente articolo, le discussioni degli europarlamentari si sono centrate sulla regolamentazione del riutilizzo delle acque residue depurate, vedasi l'allegato alla Proposta di regolamento. Leggendo fra le righe i risultati delle indagini pubbliche - a cui è stato sottoposto il disegno della futura direttiva - osserviamo un'Ue a due marce, come accade da tempo. Un'Europa Centrale, ricca di risorse idriche quindi priva d'interessi commerciali nel riciclaggio delle acque residue, sostenitrice di una legislazione sul modello decreto Effluenti. Un'Europa Meridionale - a rischio desertificazione e intrusione dell'acqua di mare negli acquiferi profondi - interessata a una chiara, razionale e pragmatica regolamentazione delle risorse idriche per ridurne al minimo gli sprechi.
Evidenziamo che la gestione inefficiente dell'acqua si ripercuote in maggiori oneri su tutti i cittadini del bacino mediterraneo, sotto forma di costi di servizi aggiuntivi legati al trattamento delle acque fognarie. In pratica, enormi quantità di acqua dolce - in qualche caso di migliore qualità di quella dei fiumi di pianura o delle lagune naturali - vengono "smaltite" nei fiumi, finendo in mare o semplicemente evaporando.
Paradossalmente, i governi dei paesi del Mediterraneo spendono milioni di euro in progetti di impianti di desalinizzazione, un processo industriale di gran lunga più energivoro e con maggiore impatto ambientale rispetto all'affinazione delle acque residue depurate.
Il Pacchetto per l'economia circolare e la bozza direttiva sul riutilizzo dei reflui depurati si propongono dunque di cambiare l'atteggiamento di una classe politica che considera i reflui più come rifiuto che come risorsa. Il nostro decreto Effluenti è un chiaro frutto di tale classe politica -nessun partito escluso -, che invoca a sproposito il Principio di precauzione per mascherare la propria incompetenza in materia scientifica.
L'approccio normativo sul quale si baserà la futura direttiva è detto "fit for purpose" nel gergo euroburocratese, ovvero "su misura" in italiano. In poche parole, non aspettiamoci un'unica tabella contenente i parametri minimi di qualità delle acque depurate utilizzabili in agricoltura (approccio detto "one fits all" ovvero "taglia unica"). Vi saranno più tabelle, applicabili a seconda del tipo di coltura da irrigare o di utilizzo dell'acqua depurata.
L'approccio "su misura" sembra concettualmente ragionevole: non c'è alcuna convenienza economica nel "purificare" le acque di scarico, eliminando alcune sostanze ritenute come "contaminati" (da un punto di vista ambientale) quando tali sostanze sono nutrienti con valore agronomico. L'attuale legislazione è un palese esempio del modello dell'economia lineare, insostenibile a lungo termine. In pratica, spendiamo ingenti quantità di denaro ed energia per eliminare l'azoto ed il fosforo dalle acque residue, per "smaltirle" nei copri idrici, e nel frattempo spendiamo enormi quantità di energia e denaro nel pompare acqua potabile da falde e corpi idrici, per aggiungerne più azoto e fosforo in forma di fertilizzanti chimici.
E' vero che i "contaminanti" eventualmente presenti nelle acque reflue non sono solo azoto e fosforo, cioè risorse utili per l'agricoltura. Altre sostanze talvolta presenti nelle acque residue - ad esempio il cromo ed il piombo - sono potenzialmente pericolose. Tuttavia, la loro pericolosità è relativa: i metalli pesanti non vengono assorbiti allo stesso modo dalle diverse specie di piante, e inoltre tale assorbimento non necessariamente è un pericolo per la salute o l'ambiente. Ad esempio, acque contenenti tracce di metalli pesanti si potrebbero utilizzare tranquillamente per irrigare colture di pioppo o canapa da fibra, o perfino viti e alberi da frutta, perché i metalli pesanti vengono assorbiti e immobilizzati nelle radici e non passano ai frutti. Le stesse acque, al contrario, non sarebbero utilizzabili per irrigare ortaggi. Inoltre, ricordiamo che la etichetta "metalli pesanti", che scatena le fobie dei "comitati del no", delle associazioni di consumatori, di politici e cospirazionisti, include anche elementi di fondamentale importanza agronomica, costituenti dei fertilizzanti commerciali: ferro, manganese, molibdeno, cobalto, rame, selenio e zinco.
Se da una parte sembra logico adottare un approccio normativo "su misura", opposto all'attuale "taglia unica" cui ci costringe il dm 12 giugno 2003, n. 185, regolamento recante norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue in attuazione dell'articolo 26, comma 2, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, dall'altra parte è lecito chiedersi: fino a che punto si spingeranno gli europarlamentari nel loro criterio "fit for purpose"? Si arriverà all'estremo di dover rispettare una tabella di qualità delle acque per ogni singola coltura? Di quale semplificazione normativa si tratta allora?
L'approccio "fit for purpose" apre la porta alle solite complicazioni burocratiche "all'italiana" che scaturiranno in fase di recepimento nazionale della futura direttiva europea. Ad esempio: Come verrà garantita la qualità delle acque depurate da utilizzare in agricoltura? Il regolamento accenna alla possibilità di utilizzare dei sistemi di monitoraggio in continuo dei parametri di qualità elementari - pH, conducibilità, torbidità, ossigeno disciolto - già in uso in alcuni paesi (nella Foto 1: un sistema utilizzato in Spagna, menzionato in una delle note dell'allegato alla proposta di direttiva).
Foto 1: Centralina di monitoraggio dei parametri elementari della qualità dell'acqua
(Foto cortesia di Adasa sistemas)
Esistono sistemi ancora più evoluti, veri e propri laboratori robotizzati capaci di rilevare parametri di qualità più specifici, quali ad esempio la concentrazione di coliformi totali, indicatori della contaminazione con materia fecale (Foto 2). Per ora non è chiaro fino a che punto la futura direttiva spingerà l'ampiezza dei parametri da monitorare, né se questo monitoraggio sarà obbligatoriamente automatico e in situ, come auspicato dal Jrc oppure a campione, come avviene oggi in Italia. Nel nostro paese il campionamento è manuale a cura di un pubblico ufficiale e l'analisi viene eseguita successivamente in laboratorio. Nella bozza della direttiva nemmeno è determinato su chi ricadrà l'onere dell'installazione e mantenimento di tali sistemi di monitoraggio. Dovrà farsene carico l'azienda che gestisce l'impianto di depurazione, l'Arpa competente, o l'azienda agricola che riutilizzerà i reflui depurati per l'irrigazione?
Foto 2: Laboratorio robotizzato per il monitoraggio dei coliformi totali
(Foto cortesia di Adasa sistemas)
Un altro motivo per un potenziale recepimento contorto della futura direttiva è l'innegabile valore fertilizzante dei nutrienti contenuti nelle acque reflue trattate: azoto, fosforo, potassio, magnesio, calcio, zolfo e ferro.
A tutti gli effetti le acque riciclate si potrebbero quindi considerare "fertilizzanti". A questo punto ci chiediamo: scatterà l'obbligo di registrare gli impianti di trattamento delle acque fognarie, e le stesse acque trattate, al registro dei fertilizzanti? Il rischio di tale interpretazione contorta, che vanificherebbe la semplificazione che la futura direttiva europea si prefigge, è concreto.
Conclusione
In data 13/02/2019 sono stati presentati ben 132 emendamenti alla proposta originale del Jrc (Joint research council). Uno di tali emendamenti la dice lunga sulla competenza scientifica dei rappresentanti del popolo europeo a Bruxelles: si introduce l'obbligo della dicitura "acqua riciclata" al posto di "acque residue depurate", perché suona più pulito. La risoluzione pubblicata dal Parlamento europeo in data 21/02/2019 non definisce la proposta con i suoi emendamenti come una direttiva comunitaria e pertanto l'iter legislativo continua il suo corso e gli aggiornamenti futuri verranno pubblicati nel sito web assegnato al provvedimento.Invitiamo dunque i lettori, che non l'abbiano già fatto, a iscriversi alla newsletter per rimanere informati sugli ulteriori sviluppi.