Forte la preoccupazione da parte di Confagricoltura, espressa per bocca del presidente Antonio Boselli, il quale ha presentato le tabelle prodotte da Ismea relative alla capacità italiana di soddisfare la propria domanda interna. Tabelle che racchiudono in sé poche gioie, sebbene di alto valore, e molte delusioni. Mentre il grado di auto-approvvigionamento italiano pare infatti ampiamente positivo per quanto riguarda il mondo-vino, con un valore pari al 225% (dati 2015), la frutta fresca (129%) e le carni avicole (108%), la musica cambia quando si parla di prodotti agricoli e, peggio ancora, zootecnici di altra natura.
L'Italia riesce infatti a produrre solo il 39% del grano tenero che le servirebbe, valore che sale al 70% per il grano duro necessario a fare la pasta. Meglio del tenero, quindi, ma non sufficiente a soddisfare le esigenze dell'industria pastaria, anche a causa di una scarsa qualità delle farine nostrane quanto per esempio a proteine. Quindi non è solo una questione di quantità, ma anche di qualità. Avere una farina al 12% di proteine obbliga infatti a tagliarla con altre farine con proteine superiori al 14%. Dato che spesso che ciò si rileva nei grani esteri da importazione, non ci si deve perciò stupire delle navi cariche di grano che approdano ogni giorno a porti come quello di Bari.
Ma al di là dei temi legati al solo frumento, non è che altre colture se la cavino meglio. Di soia l'auto-approvvigionamento si ferma a un misero 54%, il quale per quanto basso lascia comunque ben sperare, visto che solo tre anni prima, nel 2012, questo valore stallava al 27%. Un raddoppio incoraggiante, ma che copre solo poco più della metà dei fabbisogni interni, obbligando a forti importazioni soprattutto per soddisfare la filiera zootecnica di pregio, quella che poi diviene un fiore all'occhiello quando i foraggi siano stati convertiti in salumi e formaggi di alto prezzo.
Altre due colture fondamentali in tal senso sono infatti mais e orzo. Le loro percentuali sono rispettivamente del 66 e del 60%. Davvero poco, pensando al valore agroalimentare che si origina dai prodotti finali. Del resto, l'Italia produce solo il 71% del latte necessario, come pure il 61% delle carni suine e dei salumi. Peggio per le carni bovine, con un deprimente 54%. In altre parole, il business legato alle filiere zootecniche è quello più largamente bisognoso di importazioni dall'estero di materie prime per nutrire mandrie e allevamenti vari.
Non che in tema di oleaginose il Belpaese possa tirare un sospiro di sollievo, visto che girasole e olio di oliva nostrani soddisfano la domanda interna in ragione del 62% il primo e di un valore estremamente variabile il secondo. Se nel 2014 l'auto-approvvigionamento di olio d'oliva toccava il 76%, nel 2015 è crollato al 38%, salvo poi risalire all'86% nel 2016. Un'altalena produttiva in parte dovuta alle bizze climatiche, ma in parte anche a una difformità marcate quanto a produttività nelle diverse zone olivicole italiane, ove spesso si patisce di un grave deficit di professionalità, con uliveti molto vecchi e gestiti più per raccogliere le olive a fine ciclo che per stimolare le piante a produrre al meglio.
Quando esplodono avversità come per esempio la Mosca, poi i problemi emergono in tutta la loro gravità: pochi investimenti e cure delle piante, come avviene per ogni settore agricolo, portano infatti a risultati scarsi e incostanti nel tempo.
Bilance dai pesi diversi
L'export dei prodotti agroalimentari italiani tira, eccome. Ma c'è purtroppo un ma. A fronte di 41 miliardi circa di export registrati nel 2017, con un forte balzo rispetto ai 25 scarsi del 2009, vi sono cifre molto maggiori relative agli import di materie prime. Sono infatti ben 47 i miliardi usciti dall'Italia per finire all'estero al fine di approvvigionarsi di alimenti e foraggi. Un buco cioè di 6 miliardi circa a nostro sfavore che dovrebbe mitigare molto le fanfare suonate a più riprese sui media, in Parlamento e nei convegni di associazioni che vivono per lo più di prodotti finali anziché di agricoltura.I soli prodotti agricoli rappresenterebbero un valore di oltre 14 miliardi di euro importati, contro i 7 miliardi esportati. In pratica, il “buco” fra import ed export agroalimentare italiano è rappresentato da quello dovuto all'incapacità italiana di auto approvvigionarsi di ciò che le serve.
Sicuramente, lo Stivale ha una conformazione che mal si presta a fornire superfici in più da coltivare. Quindi la dipendenza del Paese dall'estero si teme non potrà mai essere invertita. Molto si potrebbe fare invece sul fronte della produttività per ettaro. Innalzare cioè le rese anziché cercare terra in più, onestamente introvabile se non recuperando areali marginali che per la medesima ragione sono stati abbandonati. Ed è qui che Confagricoltura lancia l'appello: fateci produrre per come sapremmo fare, dandoci la libertà di coltivare utilizzando ogni possibile tecnologia atta a innalzare le rese e, di conseguenza, i redditi degli agricoltori.
Confagricoltura vive infatti molto male, con ottime ragioni, la proibizione delle biotecnologie all'interno dei confini nazionali. Come pure guarda con preoccupazione alle crociate anti-pesticidi, spesso strumentali e demagogiche, che stanno togliendo strumenti preziosi per la difesa delle produzioni. Glifosate ha fatto scuola, con un'aggressione senza precedenti che rischia di togliere una soluzione strategica per l'agricoltura italiana solo per meri interessi politici che con ambiente e salute pare abbiano davvero poco a che fare, usandole come paravento agli occhi di una popolazione perennemente allarmata senza ve ne sia affatto un'oggettiva ragione.
In sostanza, questo il messaggio lanciato a Lodi, è "Lasciateci lavorare e a raddrizzare le bilance ci pensiamo noi". La professionalità e la dedizione non mancano di certo. Forse sarebbe bene iniziare a dare loro retta.