Se non si conosce il passato, si sa, risulta difficile orientarsi nel presente e fare previsioni per il futuro. Se però del passato si possiede una visione parziale, oppure distorta, allora i danni rischiano di essere considerevoli, sia nel presente, sia nel futuro. Una lezione importante in tal senso ce la fornisce uno scrittore di duemila anni fa, esperto di fatti agro-alimentari.
 

Gusto per il cibo o per la verità?


Appena conclusosi, il Salone del Gusto di Torino ha fatto da palcoscenico a una coloratissima kermesse di prodotti alimentari di tutto il Mondo, con grande risalto ovviamente al tipico, all’etnico, al Km Zero, al biologico e a tutte quelle forme di agricoltura di stampo locale e vagamente autarchico che si mostrano funzionali alle più recenti filosofie agroalimentari che pervadono oggi il Mondo Occidentale. Filosofie spesso profumate di storia e cultura, come pure adornate da quei lineamenti buoni e puliti che tanto spazio si accaparrano sui media generalisti, sempre pronti a trasmettere dell’agricoltura visioni che per certi versi sconfinano talvolta nel bucolico più artificiale. Peccato che tali visioni abbiano ben poco a che vedere con i grandi numeri sui quali si regge l’attuale economia agroalimentare globale, nella quale non si può certo idolatrare la qualità criminalizzando al contempo la quantità. Anche perché, spesso, il tanto osannato concetto di “qualità” si basa su argomentazioni che tendono più che altro al fumoso e al poetico, contrariamente alla quantità che si misura molto agevolmente in tonnellate e in bocche sfamate.
 
Carlo Petrini, Patròn di Slow Food e ospite di riguardo presso il Salone torinese, non ha ovviamente mancato di far sentire la propria voce, toccando diversi tasti del proprio storico argomentario socio-agro-alimentare. Così facendo ha però toccato anche i nervi di chi invece quell’argomentario ormai non lo sopporta davvero più.
Per quanto si possa infatti convenire con il “gastrosofo” nazionale circa gli aspetti più strettamente culturali del cibo, bene indubbiamente prezioso, non si possono però condividere con lui certi spaccati socio-economici che stridono vistosamente con le esigenze alimentari quantitative di un’Umanità che corre verso i nove miliardi di unità e che se vuole andare avanti non può certo più guardare indietro.
 
Le argomentazioni alla base della cosiddetta “decrescita felice” hanno infatti già sollevato numerosi contraddittori nel settore primario anche prima che a rincarare la dose arrivasse Petrini. Nonostante ciò, questi, a Torino, ha invece rafforzato concetti che con l’agricoltura intensiva super specializzata e iper produttiva entrano in palese collisione, come quelli che vorrebbero l’agricoltura del domani basata su comunità locali di agricoltori che si scambiano allegramente semi e piantine, in barba alla protervia delle multinazionali della genetica, e che nutrono e proteggono le colture seguendo pratiche avulse dalle proposte della moderna chimica agraria figlia della tanto odiata industria. “Pesticidi”, fertilizzanti e ogm non sono infatti considerati positivamente in questi spaccati agricoli alternativi, anzi: sarebbero proprio nemici dai quali fuggire.

A tali posizioni non sono quindi mancate forti reazioni da parte di chi, oltre a padroneggiare le tecniche produttive attuali, conosce molto bene anche la storia degli ancestrali agricoltori che furono, ovvero Gaetano Forni e Luigi Mariani, i quali hanno strutturato un contro-argomentario che nel suo incipit cita niente po’ po’ di meno che Lucio Giunio Moderato Columella. Questi, nel suo "De re rustica" scritto nella prima metà del I sec d.C., tocca argomenti che sembrano ancora oggi di estrema attualità: “Odo spesso la gente lamentarsi ora dell’attuale sterilità dei campi, ora dell’attuale inclemenza delle stagioni che ormai va danneggiando i frutti della terra; c’è chi poi vuol attenuare in certo modo queste lamentele con l’assegnare al fatto una ragione precisa e dice che, stanco e isterilito dalle eccessive produzioni del passato, il terreno non può più offrirci i suoi frutti come nel passato”.
 
Quello del “moriremo tutti”, evidentemente, era già uno sport alquanto diffuso anche ai tempi dei Romani imperiali. Solo che per fortuna dell’Umanità di allora non poteva diffondersi così velocemente come accade oggi, nel Regno del web.
 
Resta quindi solo da capire quando si accetterà come normale il fatto che l’agricoltura debba sfamare prima la pancia e solo poi la psiche. Sempre che ce lo si possa economicamente permettere di sfamarla, la psiche. Perché in un Mondo ove solo una minoranza di Viventi deve fare i conti con il colesterolo, pare si siano dimenticati i tempi in cui le mense erano basate solo su polenta e verze, ottenute si senza dare soldi alle multinazionali e scambiandosi fraternamente semi e piantine, ma anche senza fare ricorso a quelle tecnologie che hanno poi permesso di trasformare la vita degli agricoltori da infame a semplicemente dura. Ovvero i tempi in cui la pellagra la faceva da padrone in intere Province o quando una malattia come la Peronospora delle patate causava carestie in cui perivano centinaia di migliaia di Esseri Umani. Oppure ancora quando fra una varietà che produceva poco e una che produceva tanto non si esitava a scegliere la seconda, perché le bocche da sfamare non erano molto inclini a indulgere su certe paturnie un po’ chic, tipiche di chi oggi ha forse l’appetito più sottile della carta di credito con cui fa acquisti nelle boutique agroalimentari tanto in voga presso l'attuale boghesia benestante. Quella che cioè può permettersi di pagare salumi e formaggi a cifre con le quali una famiglia operaia ci fa la spesa per una settimana, con buona pace di chi vende cibi elitari i cui prezzi più che tali paiono il Terzo Segreto di Fatima.

Il dibattito quindi cresce nei toni, fra chi auspica orticelli familiari quali scenari alternativi all'attuale agricoltura intensiva e chi, conti alla mano, straluna gli occhi non riuscendo a capacitarsi di come sia possibile formulare ipotesi così anacronistiche.
Chi vivrà, cioè chi riuscirà a mangiare, vedrà.